Gli emiri arabi sono ossessionati dalla felicità. In particolare quello di Dubai ha preso seriamente a cuore la misurazione umorale del grado di felicità dei suoi sudditi.

L’happy-mania dello sceicco Mohammed bin Rashid al-Maktoum – anche primo ministro degli Emirati – è iniziata l’anno scorso con la creazione di un ministero ad hoc.

Affidato, manco a dirlo a una donna.

La questione di genere è piuttosto controversa da quelle parti: il Diritto obbliga per esempio le donne ad essere “accompagnate” dai mariti persino in banca, dove al momento di conoscere il pin del proprio conto corrente, la presenza del consorte è necessaria; in politica hanno peso specifico pari a zero, ma si affidano loro ministeri “estetici”.

L’emiro ha anche pensato di affiancare a quello della felicità il ministero della Tolleranza (!). E l’operazione è proseguita quest’anno con il progetto Smart City, che mira a fare di Dubai lo Stato più felice al mondo, eliminando burocrazia e carta entro il 2021.

Una città digitale, perciò, che corre sul filo della rete. Così, per dirsi moderni (e felici) gli sceicchi dei regni più conservatori del Medio Oriente (l’islam che vi si pratica è sunnita con totalità di wahabismo in Arabia Saudita) ricorrono al marketing sociale.

D’altra parte la mania di misurare la felicità con criteri legati al benessere materiale più che alla libertà di pensiero, dilaga in tutto il Golfo.

Da un recente sondaggio Gallup è emerso che su 68 Paesi (esclusi gli Stati europei) l’Arabia Saudita risulta il secondo più felice al mondo.

Eppure Amnesty International l’ha condannata in uno dei suoi recenti report perché «ha ristretto pesantemente le libertà d’espressione, associazione e assemblea» negli ultimi due anni. Una cosa è chiara: per le monarchie del Golfo felicità non fa rima con libertà.