E’ notte e il porto di Helsinki è immerso nel buio. Da una montagna di carbone emerge una testa.

Due occhi sbarrati sono l’unica luce sullo schermo. Inizia così l’avventura di Khaled, profugo da Aleppo, approdato clandestinamente in Finlandia dopo una lunga odissea dal Medio Oriente al Nord Europa.

Le prime immagini di “L’altro volto della speranza” di Aki Kaurismäki ci introducono nella narrazione di una storia del nostro tempo, fatta di ignoto e di solidarietà, di violenza e umanità.

Con toni a tratti surreali, a tratti poetici, il regista, sceneggiatore e produttore Kaurismäki, autore del toccante «Miracolo a Le Havre» (2011), torna a declinare il tema delle migrazioni con questo film che ha vinto l’Orso d’Argento per la migliore regia al Festival di Berlino di quest’anno.

Sullo sfondo di anonime periferie ai limiti del degrado, attraversate da macchine anni Sessanta (che pongono dubbi allo spettatore su quale periodo storico faccia da sfondo alla vicenda), vecchi menestrelli di strada cantano canzoni rock, tra passanti infreddoliti che affrettano il passo per andare a bere in un pub.

Khaled (l’attore Sherwan Haji) sfila dietro gli angoli delle vie, in cerca di un riparo per dormire, tra disavventure e sgraditi incontri con bande di skinhead che picchiano gli immigrati.

Viene salvato da un gruppo di emarginati che per solidarietà tra poveri lo nascondono in una baracca.

La tragedia di quello che si è lasciato alle spalle si accompagna alla speranza di ritrovare la sorella persa durante la traversata dei Balcani a piedi.

Il ragazzo decide di chiedere asilo in Finlandia e viene “provinato” da una addetta dell’ufficio immigrazione, nel Centro di permanenza riceve un sapone, un asciugamano e un rasoio, incontra un altro siriano “in attesa di giudizio” con cui condivide giorni di attesa senza tempo.

La burocrazia è più forte di ogni tragedia e la richiesta di asilo di Khaled viene rigettata con il rimpatrio in Siria dove viene decretato ipocritamente che «la situazione non è di grave pericolo».

Oltre il cinismo della burocrazia ci sono però le persone e Khaled viene aiutato a fuggire, di nuovo senza meta e senza futuro. In parallelo alle sue peregrinazioni, seguiamo le vicende del signor Wilkstrom (Sakari Kuosmanen), un finlandese cinquantenne di poche parole che lascia il suo lavoro, e si gioca tutto al tavolo del poker, vincendo una somma con cui rileva uno squallido ristorante.

Piatto forte del menù sono sardine in scatola e patate lesse, preparate e servite da una stralunata équipe di maître (Ilkka Koivula), cuoco (Janne Hyytiäinen) e cameriera (Nuppu Koivu), tutti e tre pronti ad indossare il kimono del sushi bar o la bandana dei locali di karaoke per migliorare i profitti, con effetti comici imprevisti ed esilaranti.

Sembra che tra il profugo siriano e il signore finlandese non ci sia proprio niente in comune fino al momento in cui si incontrano: Khaled si è rifugiato a dormire tra i cassonetti della spazzatura e Wilkstrom cerca di cacciarlo via a suon di pugni, salvo portarlo dentro il locale per farlo rifocillare.

Qui il ragazzo trova accoglienza e lavoro, sempre nell’ansia di una vita da clandestino, pronto a nascondersi ad ogni controllo.

Viene da pensare che «tutta Europa è Paese» e che le storie di tante persone spinte a fuggire dalla loro terra si somigliano.

Come in “Miracolo a Le Havre” ritroviamo in questo film lo stile unico di Kaurismäki, fatto di inquadrature fisse, dialoghi scarni, toni tragicomici.

Una scelta estetica che ha lo scopo di mettere in primo piano i volti delle persone che la vita lascia in ombra, raccontare «piccole» storie che diventano emblematiche.

“L’altro volto della speranza” è una denuncia della burocrazia kafkiana delle politiche migratorie europee, combattute tra solidarietà e populismi.

«Il mio eterno obiettivo è sempre stato quello di fare un film che una donna cinese di campagna potesse capire anche senza i sottotitoli» dice il regista. E in quest’opera ci riesce benissimo, senza mai scivolare nel pietismo, nell’enfasi politica o nel pamphlet.

Ben lo spiega l’amico del regista, il critico Peter von Bagh recentemente scomparso, a cui il film è dedicato: «Kaurismäki ha descritto una Finlandia marginale, un mondo di sfortunati e di perdenti, di cui coglie la luce magica, la sofferenza autentica, la compassione profonda e l’umorismo, con un fantastico senso dello stile, sorretto dalla coscienza ingenua del proprio valore».

(di Miela Fagiolo D’Attilia per Popoli e Missione di Giugno)