Le diseguaglianze di reddito, la forte sperequazione tra ricchi e poveri e la crescita vantaggiosa solo per alcuni sono una iattura per tutti.

Certamente per i meno fortunati, ma decisamente anche per i ricchi.

A dirlo è una delle organizzazioni economiche considerate da sempre parte della “filiera” global del mondo sviluppato: l’Ocse, l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico che ha sede a Parigi.

In uno dei report più recenti intitolato In it together: why less inequality benefits all (Sulla stessa barca: perché meno diseguaglianze beneficiano tutti), spiega che «maggiore disuguaglianza significa che alcune persone – i ricchi – hanno migliori opportunità di sfruttare diversi vantaggi».

Al contrario, «le famiglie povere possono non essere in grado di far studiare i loro figli quanto sarebbe necessario, o possono non permettersi un’istruzione di alta qualità, danneggiando così i loro futuri guadagni. E quindi è difficile per loro investire in nuove opportunità».

Se i poveri non escono dalla loro trappola, anzi, ci rimangono incastrati dentro perché non usano gli stessi canali degli altri, a rimetterci siamo tutti.

Se vogliamo, si tratta di un discorso di “opportunismo economico”. Certe ricette fortemente orientate al liberismo fanno un po’ cilecca e il sistema non è a compartimenti stagni: dunque colpirne una parte significa affondarlo tutto; ma quale che sia la ragione che spinge l’Ocse a chiedere maggior equità, il risultato è questo.

Nel 2012, si legge nel report, il 40% della popolazione (classe medio-bassa) possedeva solo il 3% della ricchezza in 18 Stati membri dell’Ocse, mentre il 10% più ricco controllava la metà della ricchezza totale, e infine l’1% più ricco ne possedeva il 18%.

Che i pochi ricchissimi possiedano quasi tutta la torta è qualcosa che danneggia l’intero Paese, dice.  (…)

La teoria economica (pure quella liberista) dopo aver fatto molti danni ha in parte compiuto un’inversione di rotta, i politici no. Una delle spiegazioni è che la politica non è teorica.

E che una volta avviato un percorso non fa marcia indietro per anni. Salvo poi rendersi conto della catastrofe e voler invertire il senso a naufragio avvenuto.

Non è raro in questi anni leggere rapporti di potenti organizzazioni internazionali (come il Fondo monetario internazionale) fare mea culpa, o semplicemente rivedere in parte le posizioni ideologiche da sempre assunte. Come se riconoscessero che da un punto di vista metodologico, insistere sui tagli, sulle privatizzazioni, sull’austerity, ecc. non porta lontano.

«Questa sana cultura del dubbio è probabilmente il lascito più prezioso dei sette anni trascorsi dal francese Olivier Blanchard alla guida del dipartimento economico del Fondo monetario internazionale», scrive il Fatto Quotidiano. Ecco, Blanchard, con un approccio keynesiano, ha rivisto fortemente le posizioni del Fmi.

Eppure non ha mai assunto una posizione politica contro la teoria dell’austerità espansiva fatta propria dalla Commissione europea. Perché le implicazioni a quel punto sarebbero troppe ed entrerebbero nei gangli del sistema di poteri. Il punto “debole” di questi approcci revisionisti, dunque, è che rimangono totalmente tecnici. Così è per l’Ocse.