Amran ha 13 anni e vive in Somalia: lei e la sua famiglia abitavano dentro un villaggio senza nome e senza pozzi, in una casina fatta di terra e mattoni rossi che non ha retto alle alluvioni di ottobre.
Così quando la pioggia ha cominciato a cadere copiosa, per giorni e giorni, facendo esondare il fiume Shabelle, la piccola Amran e i suoi tre fratelli si sono ritrovati senza casa. Ora abitano in una tenda da campeggio.
«Mi sono spaventata moltissimo – ha raccontato la ragazzina a Save The Children – quando ho sentito che l’acqua stava arrivando e che avrebbe raggiunto casa nostra, eravamo tutti terrorizzati».
A giugno dello scorso anno il numero delle persone costrette ad abbandonare casa per via degli shock climatici ha raggiunto la cifra record di un milione e 21mila in tutta l’Africa orientale e meridionale. Escluse le alluvioni che hanno colpito la Somalia, l’Etiopia, il Kenya, il Sud Sudan negli ultimi tre mesi.
Nel solo 2019 cicloni, inondazioni e frane hanno ucciso 1.272 persone in queste zone: in Mozambico le vittime sono state 648, nello Zimbabwe 339 e in Kenya 95. I dati sono delle Nazioni Unite e li ha ripresi Save The Children per lanciare un appello ai leader di COP 25 riuniti a Madrid dal 3 al 13 dicembre scorsi, ricordando che 1.200 persone sono ancora a rischio in quelle zone, ma possono essere salvate.
«La crisi climatica contribuisce ad una emergenza alimentare che riguarda almeno 33 milioni di persone nella regione (circa il 10% della popolazione distribuita in 10 Paesi). Oltre 16 milioni di queste sono bambini», scrive la onlus britannica.
Proprio l’accento posto sulla eccessiva vulnerabilità dei più piccoli fa pensare ad una vera e propria “guerra” contro i bambini.
«Qui possiamo toccare con mano le conseguenze del cambiamento climatico che sta uccidendo le persone, le sta costringendo a lasciare le loro case e sta strappando dalle mani dei bambini l’opportunità di costruirsi il futuro al quale hanno diritto», ha dichiarato Ian Vale, direttore regionale di Save the Children in Africa.
Le immagini satellitari, scrive anche la Fao in una nota, mostrano che oltre 128mila ettari di terra, il 50% delle quali coltivata, lungo il fiume Shabelle sono stati inondati d’acqua nei mesi scorsi. In tutta l’Africa i cambiamenti climatici non sono soltanto un alert mediatico, ma un vero e proprio dramma quotidiano.
Gli esperti dicono che queste anomale piogge africane sono la conseguenza di un fenomeno chiamato Indian Ocean Dipole (due sono le polarità), che quando positivo, causa un aumento di due gradi della temperatura delle acque dell’Oceano indiano. Ciò comporta una maggiore evaporazione a largo delle coste dell’Africa Orientale, facendo piovere a lungo e copiosamente.
«Sono numeri impressionanti che non includono le migliaia di vite spezzate a causa della siccità – si legge nel report di Save The Children -: negli ultimi 12 mesi abbiamo assistito ad un aumento nel numero di persone che soffrono la fame e di conseguenza ad un’ulteriore perdita di vite umane, in particolare tra i bambini».
Ovviamente ad uccidere è anche l’altro lato della medaglia: la siccità.
In diverse aree dello Zimbabwe si registra il più basso livello di piogge dal 1981, con 5,5 milioni di persone colpite da una grave insicurezza alimentare. La regione dello Zambia ricca di mais è oggi a secco: le esportazioni si sono azzerate, con la conseguenza che nel Paese a soffrire la fame sono 2,3 milioni di persone.
Lo scienziato climatico Peter Johnston scrive che il rischio maggiore dei cambiamenti climatici è l’incremento delle temperature soprattutto in Africa: in media annua le temperature sono aumentate di 3-4 gradi centigradi rispetto a quelle registrate nel 20esimo secolo. Le emissioni di anidride carbonica sono la chiave: vanno ridotte drasticamente, non se ne può fare a meno.
Uno studio firmato da 11mila ricercatori di 153 Paesi, tra cui circa 250 italiani, pubblicato dalla rivista BioScience sancisce che la terra attraversa una vera e propria «emergenza climatica», e di questo passo soffriremo tutti «indicibili sofferenze umane».
L’immagine di una guerra che colpisce con piogge, cicloni, raffiche di vento e siccità anziché con le bombe, fa pensare ad una azione intenzionale e premeditata dell’uomo. E in effetti queste emergenze sono la conseguenza di politiche mondiali irresponsabili e incuranti del Creato. Lo sa bene papa Francesco che parla di «sfida di civiltà» e della politica.
In un messaggio inviato ai capi di governo riuniti per la 25esima COP (la Conferenza delle Parti sugli Accordi climatici nata nel 1995 a Berlino in ambito Onu) ha scritto: «Dobbiamo chiederci seriamente se c’è la volontà politica» di agire contro i cambiamenti climatici «con onestà, responsabilità e coraggio, con più risorse umane, finanziarie e tecnologiche». «Numerosi studi – scrive Bergoglio – ci dicono che è ancora possibile limitare il riscaldamento globale». In effetti si tratta solo di voler applicare le ricette già messe nero su bianco dagli scienziati, senza ulteriori ritardi.
Ma è necessario «riflettere coscienziosamente sul significato dei nostri modelli di consumo e di produzione – dice il papa – e sui processi di educazione e di consapevolezza che li rendano compatibili con la dignità umana».
Per il Vaticano c’è ancora una speranza, la partita non è chiusa e il papa sa che «resta una finestra di opportunità, ma dobbiamo fare in modo che non venga chiusa. Dobbiamo cogliere questa occasione per azioni responsabili nel campo economico, tecnologico, sociale ed educativo, sapendo molto bene come le nostre azioni siano interdipendenti».
E’ dai tempio del Protocollo di Kyoto del 1997 sulla riduzione delle emissioni dei gas serra, che COP non produce risultati e accordi soddisfacenti: anche stavolta a Madrid i leader hanno deciso di non decidere. Molto riluttanti nel voler reimpostare una politica industriale invasiva sono Usa, Russia, India e Cina.
Ma la terra non aspetta. Lo stesso Segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, a Madrid ha detto: «Il ritmo lento con cui procedono gli sforzi per rallentare i cambiamenti climatici è frustrante». E ha aggiunto: «è necessario un cambiamento rapido e profondo nel modo in cui facciamo affari, come generiamo energia, come costruiamo città, come ci muoviamo e come nutriamo il mondo. Se non cambiamo urgentemente il nostro modo di vivere, mettiamo a rischio la nostra stessa vita».
Anche le guerre sono nemiche del clima. A Madrid l’International Peace Bureau ha chiesto di «tagliare le emissioni militari».
«La Cop25 e i Paesi firmatari dell’Accordo di Parigi devono includere il settore militare, vero killer del clima, nei calcoli relativi alle emissioni e nei piani d’azione, obbligando gli attori alla trasparenza e a veri tagli». Al summit, 47 tra i Paesi meno avanzati, fra i quali diversi Stati africani, hanno chiesto anche delle compensazioni per i Paesi più vulnerabili e meno responsabili.
Finora i primi a rimetterci sono stati i più poveri e l’Africa ce lo mostra: ma anche le ricche democrazie occidentali rischiano grosso.
Tagliare i gas serra è un obbligo non più rimandabile e non farsene carico è un crimine contro l’umanità.
Foto: archivio Save the Children