L’allerta e le proteste di Hong Kong contro l’extradition bill non si placano. I cittadini vogliono le dimissioni immediate della leader Carrie Lam, l’abrogazione totale della controversa legge sull’estradizione in Cina, e le scuse della polizia. 

«E’ così difficile dire ‘ritirerò il provvedimento?’», si chiede Emily Lau, rappresentante dell’ opposizione. Le rassicurazioni della leader al governo,  Carrie Lam, così come le sue pubbliche scuse, non sono state sufficienti. 

In effetti la legge in questione, se approvata, consentirebbe l’estradizione verso l’autoritaria Repubblica Popolare Cinese (ma anche verso Taiwan e ad altri Paesi della lista) di cittadini sospettati di aver commesso un crimine, mettendo così a rischio i diritti di tutti.

Il provvedimento condizionerebbe fortemente la libertà di attivisti, oppositori, giornalisti di Hong Kong.

«Si tratta dell’ultima battaglia per Hong Kong: se la perdiamo, Hong Kong non è più Hong Kong, è solo un’altra città cinese» ha detto a The Guardian Martin Lee, ex parlamentare democratico ed attivista.

La massa oceanica di gente, due milioni di persone per la quasi totalità giovanissime, scese in strada ad Hong Kong, partire dal 9 giugno scorso, ha stupito il mondo intero e messo nell’angolo i politici locali.

I giornali hanno parlato di piazze che riecheggiavano Tiananmen

Ma non si può comprendere appieno questo rifiuto per l’estradizione, se non ricordando che Hong Kong è una regione amministrativa speciale della Cina, autonoma dall’ex madre patria inglese dal 1997, anno in cui tornò a Pechino ma con la formula “un Paese, due sistemi“, che le permette libertà e diritti impensabili nel resto della Cina.

Pare che l’Occidente, assorbito dall’interesse del business per la Via della Seta faccia poca attenzione all’aspetto antidemocratico della Cina di Xi Jinping.

Ma le realtà legate a doppio filo col governo di Pechino – come per l’appunto Hong Kong – sanno bene cosa significa finire nel tunnel della giustizia cinese, dove le garanzie sul rispetto dei diritti umani sono costantemente violate.

In Cina attualmente sono dietro le sbarre oltre 300 avvocati, personale legale ed attivisti associati; Pechino censura internet, mette il bavaglio alla stampa non di regime e tiene sotto scacco i blogger.

A giugno di due anni fa era stata introdotta una controversa legge sulla cybersecurity che controlla in modo ancora più stringente le app e i blog. 

«In Cina – denunciava il portavoce di Amnesty International Riccardo Noury – il governo ha continuato ad applicare, con il pretesto della sicurezza nazionale, leggi liberticide. Il leggendario attivista Liu Xiaobo, premio Nobel per la pace, è morto, malato di cancro e senza cure mediche, dopo anni di prigione per aver espresso pacificamente critiche al proprio governo».

Wang Quanzhang invece è stato prelevato dalla polizia municipale di Tianjin a gennaio 2016 ed è stato condannato a 4 anni e mezzo di carcere, con l’accusa di “sovversione del potere statale”.

La Reuters parla di misure di soft detention in Cina, per quanto riguarda l’intimidazione dei famigliari degli attivisti che vengono praticamente “invitati” a piegare la testa di fronte alle decisioni prese dagli organismi statali. Anche Liu Xia, moglie del Nobel Liu Xiaobo, è tra le vittime del soft power. Ecco perchè Hong Kong è così sensibile all’argomento diritti umani.

L’Asia Time qualche giorno fa ha scritto che i cittadini di Hong Kong non si fidano affatto delle promesse di Lam perchè la considerano troppo vincolata a Pechino; un gruppo di 500 studenti a Taipei ha rilasciato un comunicato, pubblicato da The News Lens International, dove dicono che «il governo di Hong Kong è diventato la marionetta di quello di Pechino».

Ma la loro scommessa per ora non è né vinta né persa: si sposta nelle sedi istituzionali dove la politica sta prendendo tempo.

Inoltre, le persone non hanno affatto apprezzato la reazione violenta della polizia durante i primi moti di protesta, quando le forze dell’ordine hanno sparato proiettili di gomma sulla folla armata solo di ombrelli per la pioggia (a riecheggiare la Rivoluzione del 2014 per il suffragio universale) e hanno riempito l’aria di gas lacrimogeni e bombolette urtanti al peperoncino.

Lam aveva in effetti screditato fin da subito la protesta riducendola alla categoria di riot, che vuol dire “sommossa” e prevede tutta una serie di misure per arginarla.

Ma quelle di giugno non sono state semplici “sommosse”, né tanto meno sono state violente. Erano manifestazioni di popolo per dire no all’ingerenza cinese. A manifestare c’era la metà della cittadinanza di una regione a Statuto speciale:

«Vogliamo rassicurazioni sul fatto che il nostro popolo di Hong Kong non verrà minacciato e processato politicamente da questo governo», ha detto un’attivista ad Asia Times.

Carrie Lam da parte sua ha provato ad argomentare che la legge sull’estradizione non riguarderà né i dissidenti né i casi politici, ma il rischio per la gente è troppo elevato. Questo la dice lunga sul timore che il popolo ha della Cina e del suo sistema giudiziario, considerato corrotto e antidemocratico.

Moltissimi intellettuali si sono schierati a difesa della libertà di Hong Kong: anche l’artista Ai Weiwei, una sorta di Banksy cinese che ha preso le difese di diversi human rights defenders, ha dichiarato: «Abbiamo visto che i giovani difendono i loro diritti e questo perché nessuno si fida del sistema giudiziario cinese».

C’è poi il risvolto internazionale di tutta questa vicenda: la crisi interna ha riacceso la mai sopita questione diplomatica (e commerciale) tra la Cina e gli Stati Uniti.

Per dirla meglio, Donald Trump ha preso la palla al balzo in questi mesi, per redarguire Pechino e prendere le difese dei manifestanti di Hong Kong. Il suo intento, dicono gli analisti politici, è quello di bacchettare la Cina per metterne in difficoltà l’espansione commerciale, soprattutto legata al settore della telefonia e dell’hig tech di dominio americano.

Pang Zhongying, esperto di relazioni internazionali a Pechino, ha dichiarato al South China Morning Post che questa querelle interna ha «complicato le già tese relazioni tra Washington e Pechino».

Per sapere come andrà a finire bisognerà rimanere sintonizzati con i media asiatici: c’è da temere che la stampa europea, ed italiana in particolare, non si occuperà più molto della questione nei prossimi mesi, non appena i riflettori saranno calati sulle proteste oceaniche.

Ma il problema resta e riguarda una ben più estesa dimensione: quella della scarsa dimestichezza cinese con la libertà di pensiero e la giustizia.