(Dal mensile Popoli e Missione di maggio)

Israele come il Sudafrica degli anni bui, ossia un regime che applica un puntuale sistema di segregazione razziale?

Questa è la domanda che si è posta Virginia Tilley (e per la verità non solo lei), docente di Scienze politiche alla Southern Illinois University e autrice, col collega Richard Falk, del rapporto Onu: “Pratiche israeliane nei confronti del popolo palestinese e questione dell’Apartheid”. La risposta è spiazzante.

«La situazione attuale continua a perpetuare l’oppressione razziale – dice lei -: le politiche di Israele nei confronti dei palestinesi costituiscono un regime di apartheid», ribaltando completamente il paradigma fin qui accettato (sebbene con riluttanza) della “semplice” occupazione militare.

In Italia per un tour di presentazione del rapporto in questione, Virginia Tilley ha recent

emente tenuto un incontro presso la Chiesa Valdese di Roma, esponendo in maniera cristallina i dettagli della teoria che in qualche modo destruttura quella corrente.

La totale disparità di potere tra i due soggetti (Israele da una parte e Territori Palestinesi dall’altra) costituisce un unicum nella storia contemporanea, riconducibile solo a quell’ormai lontano scandalo sudafricano. 

«Israele è il solo sovrano – spiega Tilley -: abbiamo da una parte un grande Stato potente e nucleare, dall’altra una popolazione civile disarmata. E’ evidente che gli attori sono totalmente squilibrati».

Nelle occupazioni militari si hanno invece due Stati con pari potenza, uno assoggettato all’altro, e «questa anomalia affonda le sue radici in un nazionalismo esasperato». 

Ma quali sono le accuse più pesanti rivolte ad Israele e contenute in questo dossier dalla storia travagliata?

«Israele proibisce i matrimoni misti, separa le persone in ghetti, punisce chi resiste al regime di apartheid: nel libro discutiamo di ciascuno di questi punti nel dettaglio, mettendoli in relazione all’apartheid del Sudafrica degli anni bui», spiega la docente.

Non è stato per nulla facile per lei e Richard Falk, docente di Diritto internazionale, mettere nero su bianco tali accuse. Pubblicato dalla Commissione economica e sociale per l’Asia Occidentale il 15 marzo 2017, nel giro di due giorni il dossier è stato cancellato, in seguito alle pressioni di Usa e Israele, con l’accusa di pregiudizi nei confronti delle politiche israeliane.

Questa vicenda ha anche portato alle dimissioni, in segno di protesta, di Rima Khalaf, Segretario esecutivo della Commissione Onu che aveva richiesto il report. Un caso diplomatico poco noto ma molto significativo.

«Dobbiamo abbandonare il paradigma dell’occupazione – dice la studiosa – e anche l’idea ormai tramontata della soluzione negoziale “due Stati per due popoli”: questa impossibilità è riconosciuta a livello diplomatico. Ci può essere soltanto uno Stato per due popoli e a quel punto bisognerà scegliere: sarà di apartheid o di democrazia laica? L’apartheid è un crimine contro l’umanità e abbiamo il dovere di opporci».

Solo per ricordare cosa fu questa pratica disumana: nel 1948 il partito dei bianchi afrikaners, i coloni di origine olandese, vince le elezioni in Sudafrica, e istituisce quello che viene detto “regime di sviluppo separato”.

Inizialmente viene proposto come un «rapporto di buon vicinato tra bianchi e neri» per risolvere problemi di “convivenza” fra le varie etnie. Si rivelerà invece una vera e propria espropriazione indebita ai danni del popolo nero: cinque milioni di bianchi contro 25 milioni di neri che vengono privati del 90% del territorio, della ricchezza, dell’istruzione, della libertà.

E soprattutto, della dignità. Disumanizzati e trattati come bestie. I cittadini vengono classificati in tre principali gruppi razziali: bianco, bantu (neri africani) e coloured (persone con discendenza mista).

Successivamente viene istituita una quarta categoria per gli asiatici (indiani e pakistani).

Nel 1956 la politica di apartheid viene estesa a tutti i cittadini di colore: 3,5 milioni di neri, chiamati bantu, vengono sfrattati con la forza dalle loro case e deportati nelle “homeland del Sud”.

Oggi basta entrare nel museo dell’apartheid di Johannesburg per rievocare una delle più grandi ingiustizie del XX secolo, non ancora del tutto superata.

In effetti non è affatto semplice tacciare uno Stato di segregazione razziale: devono coincidere molte dinamiche. In base al Diritto internazionale, affinché sia accertato il reato di apartheid (vietato da tutte le Convenzioni internazionali), lo Stato dominante deve includere tra le proprie pratiche la «discriminazione razziale» e comportamenti ben strutturati allo scopo di dominare l’altro.

«Io posso affermare con certezza – dice la Tilley – che in base al Diritto, in Israele, assistiamo ad un conflitto razziale» nei confronti dei palestinesi.

E in quanto tale questo conflitto unilaterale va fermato. Le analogie col Sudafrica proseguono e sono agghiaccianti.

La politica di demolizione delle case dei palestinesi, anche a Gerusalemme; la costruzione del Muro di separazione; la limitazione della libertà di movimento e il continuo controllo delle persone ai check point, sono tutti elementi che si rifanno all’apartheid.

Inoltre, in Israele “ebraico” non è più una definizione dello Stato, ma una “identità etnica” che esclude tutte le altre. E infine: in Sudafrica esistevano delle autorità di autogoverno, i bantus, che si assumevano il ruolo di governare i neri schiacciati dall’oppressione dei bianchi.

Allo stesso modo, in Israele, sostiene questo rapporto, esiste un ruolo simile attribuito all’Autorità Nazionale Palestinese che ha il compito di autoregolare la popolazione palestinese in modo che non insorga.

Questa politica della disuguaglianza è stata rafforzata dalla legge approvata a luglio scorso, che declassa lo status della lingua araba, affermando che solo gli ebrei hanno diritto all’autodeterminazione in Israele.

Ma come è possibile l’impunità di Israele rispetto ai tanti crimini commessi? Richard Falk risponde così in una intervista sull’argomento: «Il diritto penale internazionale è sempre stato un sistema imperfetto perché non si applica agli Stati che godono di un certo livello di impunità. Dopo la Seconda guerra mondiale, i tribunali di Norimberga e Tokyo giudicarono solo i crimini commessi dagli sconfitti, non quelli commessi dai vincitori, penso alle atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Non furono perseguiti, ma legalizzati».

Ora, se è vero che in Sudafrica il regime di apartheid ha cominciato a vacillare solo quando il resto del mondo ha preso atto del crimine e ha iniziato a boicottare le politiche dei bianchi (anche dal punto di vista culturale), è altrettanto vero che nel caso di Israele il boicottaggio economico e culturale degli insediamenti coloniali è l’unica arma che può funzionare.

Questo sostengono la Tielly e il movimento internazionale del BDS, per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni.

Il che non significa opporsi alla pace e alle iniziative che vanno in quella direzione, ma al contrario, sostenere quella parte di popolo israeliano che si batte per far emergere la verità.

Però attenzione: confondere il boicottaggio degli insediamenti con l’opposizione all’esistenza di Israele, scrive anche The Guardian, «è uno dei punti di forza della politica israeliana» che riflette il bisogno di mantenere lo status quo.

«Non c’è una soluzione auspicabile in Palestina – spiega bene Tielly – che non includa i diritti umani per tutti, inclusi gli insediamenti coloniali: i sudafricani lo chiamavano colonialismo regolare».

E questo naturalmente sarà possibile solo all’interno di un Stato unificato, per due popoli, dove a prevelare siano il diritto di cittadinanza, il rispetto della persona, la democrazia e la libertà per tutti. Questa è la soluzione auspicata da coloro che davvero vogliono mettere fine ad un conflitto devastante, durato già troppo a lungo.