Il Baobab sta per essere smantellato del tutto, ma i volontari e un presidio dei Medici per i diritti umani non mollano. E assistono i migranti che ancora transitano da quelle parti. Questo era uno dei pochi centri d’accoglienza della capitale dove la gente si sentiva davvero a casa. Che venisse dal Ghana, dall’Eritrea o dall’Egitto, trovava qui, tra piazza Bologna e viale delle Province, un po’ di pace. Dopo viaggi rocamboleschi e fughe dai regimi.

Pochi giorni prima che la polizia facesse irruzione, i ragazzi, soprattutto eritrei, giocavano tranquilli a palla nella stradina stretta di via Cupa, piccola e sgarrupata, in mezzo a strutture basse per lo più abusive.

Un’eccezione bella per questa zona dove le signore girano ancora impellicciate: svoltato l’angolo esiste una piccola Africa socievole. I volontari del Baobab, i passanti, i romani che ci andavano a portare vestiti e cibo, le mamme che il pomeriggio cucinavano per loro o quelle signore che preparavano il thè nel secchio per offrirlo a chi ha freddo, sono più umani del normale.

In via Cupa, attorno al Baobab che si manteneva grazie ai concerti etnici e alle cene solidali, c’era un insolito concentrato di umanità. Sono quei miracoli che ogni tanto capitano e non sai bene perchè.

L’anno scorso il Baobab ha accolto gli eritrei di Ponte Mammolo, rimasti senza “baracca”.  E allora hanno cominciato a parlarne i giornali. Ma questo posto, soprattutto, ha fatto bene ai romani, prima ancora che ai clandestini. Eppure pare che Roma remi contro la propria umanità.

Fa di tutto per distruggere quei semi di bellezza che germogliano tra le vergogne di mafia capitale e le losche trame vaticane. Roberto, uno dei volontari, mi spiegava che chiudono perché il proprietario rivuole indietro il suo stabile dal momento che il comune non paga l’affitto. E una sentenza del Tar del Lazio impone di restituirglielo.

Patrizia Paglia, del centro Amici del Baobab dice che per anni questo è stato “il fenomeno Baobab”. Grazie alle due cooperative e all’idea di mantenere il centro d’accoglienza con i ricavi del centro culturale. Format che a Francoforte è stato replicato e funziona.

Le storie che ho raccolto in quelle poche ore in cui ci sono stata, prima del 3 dicembre mi hanno colpito. Poi ho visto le immagini dei ragazzi africani portati via nei pulmini.

<<Perchè sono venuto in Italia? Veramente io non avevo intenzione di venire qui in Europa. Volevo solo salvarmi. Salvarmi la pelle. Perché in Ghana qualcuno voleva farmi fuori e allora sono scappato>>, così inizia a raccontarci Azibo, che era al Baobab da pochissimi giorni.

Non capiamo bene, io e Paola, se tutto quello che ci racconta è vero o se qualcosa se l’è inventata. Ma non importa. Perché questo ragazzo di 30 anni, arrivato col barcone e approdato a Lampedusa (questa è l’unica certezza che abbiamo) non vede l’ora di essere ascoltato. Gli piace raccontare di sé. E alla fine di questa storia dove la verità e la fantasia sui dettagli si  confondono, lui si fa fotografare ma non in viso, e ride. E sentiamo che siamo diventati amici.

<<Boku al nord del Ghana è la città da cui provengo. E’ una piccola terra. Ma noi non ci capiamo. Vengo da una tribù. E altra gente di un’altra tribù dice che quella terra appartiene a loro. 75 anni fa hanno cominciato a combattere e ad uccidersi uno con l’altro. Io avevo 3 anni quando uccisero mio padre, dopo 3-4 anni uccisero anche mia sorella>>, ci dice.

<<Adesso siamo solo io e mio fratello. Alla fine siamo dovuti fuggire a Kumasi che invece è pacifica. Due o tre anni fa siamo tornati nel nostro paese natio per vedere le proprietà che avevamo lasciato lì…Ma quelli dell’altra tribù volevano eliminare la nostra famiglia. La gente voleva ucciderci e quindi siamo andati via>>. Non capisco bene dal suo racconto confuso come sia finito dal Ghana in Libia, ma ci è arrivato e da lì ha preso anche lui un barcone, insieme ad altre 109 persone, per sei ore di terrore col mare agitato.

<<Attorno alle dieci di sera siamo partiti. Eravamo 110. La barca era lunga da qua a laggiù – mi fa segno con le mani e indica una distanza di forse dieci metri – il tempo era bruttissimo e il viaggio durava 7 ore. Non avevo affatto paura all’inizio. Ma da un certo punto in poi quando ho pensato che fosse la fine della mia vita, ho avuto paura. Il barcone si è riempito d’acqua, per via della pioggia. Io non avevo il giubbino di salvataggio qualcun altro ce l’aveva…>>.

Quando Azibo finisce di parlare il gruppetto dei ragazzini eritrei ci raggiunge: sono piccoli, non hanno più di 16-17 anni e quasi tutti scappano dal regime di Isaias Afewerki, il presidente-padrone, per non fare il servizio militare. Una volta arruolati tra stenti e violenze non ne escono più. Ridono perché io dico che sono piccolini e che tutti hanno dei begli occhi. Ed è vero. Hanno occhi a mandorla da cerbiatto e sono esili, con i capelli riccissimi e sottili.

<<Io vado a Londra a trovare mio cugino – dice Issa – A Londra si vive bene>>. Ghali racconta di avere un bambino piccolo e una moglie in Eritrea ma anche lui andrà a Londra a cercare lavoro e poi li farà venire lì. Si passano una pallone mentre chiaccherano con noi in cerchio e si sfregano le mani.

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Non fa ancora troppo freddo a Roma ma forse a febbraio non sarà così mite. Ora che il Baobab ha chiuso non so dove andranno questi ragazzini. Ma tutti i volontari si sono affezionati a loro. Sono adolescenti esattamente come tutti gli altri. E l’esperimento di un posto accogliente e umano rimarrà per sempre nella storia di Roma.