«La donna all’interno della Chiesa è discriminata due volte: in quanto laica e in quanto donna. E’, come si diceva un tempo, un laico al quadrato!».

A dirmelo è la teologa Simona Segoloni Ruta, autrice del saggio “Tutta colpa del Vangelo, se i cristiani si scoprono femministi”.

La donna in questa Chiesa qui, oltre a non potere essere ordinata sacerdote, deve affrontare limitazioni insuperate. E’ un laico con meno diritti dei laici uomini. (I quali, per inciso, sono già in una posizione di serie b).

«La donna non può accedere a due ministeri riservati ai laici uomini, ad esempio: il lettorato e l’accolitato, affidato a chi collabora strettamente con i sacerdoti», spiega Segoloni. Si trova quindi ad essere due volte sottomessa. «La donna è ancora ai margini della vita ecclesiastica ma pur sempre al centro di quella evangelica». Basterebbe ripartire dalì. E allora andiamo a vedere cosa il vangelo dice veramente.

Vi si trovano figure di donne entrate a far parte a pieno titolo del gruppo dei discepoli di Gesù. Solo successivamente le donne delle prima comunità cristiane (ma per motivi di opportunità sociale) appariranno subordinate in qualche modo all’uomo.

Per poter continuare ad evangelizzare (e dunque ad esser credibili) le prime comunità cristiane sono costrette a vivere secondo i costumi dell’epoca.

«Come avrebbero potuto rendere testimonianza al vangelo – si chiede la teologa – se fossero stati considerati immorali e sovversivi dell’ordine sociale?».

«Oggi – dice – dobbiamo fare esattamente l’opposto: sdoganare il vangelo dal pensiero maschilista. Altrimenti in questa società qui il testo sacro non è più credibile!».

Ci sono diverse prove del fatto che il gruppo dei discepoli di Gesù era composto anche da donne.  Anche le donne “profetizzano”. («Ogni donna che prega o profetizza a capo scoperto manca di riguardo al proprio capo», 1Cor 11,2-16). L’esigenza di porre limiti ci conferma il ruolo attivo ed emancipato delle donne nella prima Chiesa.

Sarà semmai proprio la loro eccessiva “visibilità” a provocare comportamenti reazionari all’esterno. 

«Oggi per rendere credibile il pensiero evangelico – mi spiega Simona Segoloni, che per inciso è sposata e ha quattro figli – bisogna far il contrario di quanto si fece nelle prime comunità di cristiani, fortemente condizionate dalla cultura dell’epoca».

A quel tempo la donna andava “camuffata” con ruoli meno centrali, per apparire volutamente defilata e consentire in tal modo di diffondere indisturbati il Verbo nella società romana del tempo. Poteva sopportare di rientrare in un apparente stereotipo che ne castigava i costumi, pur di lasciar spazio alla sostanza del messaggio.

Oggi un atteggiamento simile è penalizzante per la Chiesa stessa perché «blocca l’evangelizzazione». Ecco perché «abbiamo una fuga dalla Chiesa soprattutto di donne di età superiore ai quaranta», spiega lei. Come a dire che le donne emancipate e in cerca di spiritualità vanno a cercarla altrove e quelle che restano nella Chiesa soffrono.

«I condizionamenti sessisti influenzano l’interpretazione del vangelo – scrive la teologa – e da una parte producono prassi valide ma non definitive, dall’altra conducono a vere e proprie devianze nell’interpretazione del dato evangelico che viene svuotato o contraddetto».
E’ chiaro nel corso dei secoli c’è stata una interpretazione “viziata”. Ma viziata da cosa? Dalla struttura di potere istituzionale. Che tra l’altro ha manipolato il concetto del “secondo natura”.

«In tutti i movimenti religiosi (anche nelle rivoluzioni sociali) si parte con un entusiasmo paritario, ma poi quando ci si assesta e prevalgono le strutture di potere, la parità si perde», dice anche la teologa Militello.

«Se ci fermiamo al dato prettamente biologico e non culturale la donna fa una brutta fine. La struttura biologica non c’entra nulla con la libertà», ribadisce anche Segoloni. Ragionamento analogo può essere esteso al concetto di omosessualità: «l’insistenza sull’essere secondo natura è funzionale ad un sistema sociale».

Ma di quale natura stiamo parlando? «Tutte le argomentazioni bibliche a sostegno di prassi che discriminano le donne si rifanno all’ordine della creazione, cercando nella natura elementi che legittimano quella subordinazione».

«Nessuna parola viene spesa nel vangelo per la maternità fisica di Maria – dice – ; che anzi sembra sminuita perché Gesù sposta il motivo della beatitudine dalla maternità all’ascolto della Parola».

Maria ha il merito di aver creduto, più che quello di aver partorito. Anche per Cettina Militello: «in verità, Maria non è “una” madre, ma madreapax perché genitrice di Dio». Decisiva per l’esperienza di Maria, spiega Simona Segoloni, non è la sua maternità, per non parlare della sua verginità che viene subito dimenticata, ma la sua docilità alla Parola di Dio.

E Maria non è l’unica discepola ricordata. Quella delle donne accanto a Gesù non è solo una «presenza occasionale o secondaria ma costante e centrale», dice la Segoloni . Il ruolo delle donne «non riesce ad esser secondario nonostante la mentalità diffusa. Non potrebbe neanche volendo, perché fra i discepoli che hanno visto il Signore, che l’hanno annunciato risorto, stanno in evidenza proprio le donne».

Eppure questo principio di “non discriminazione”, che ha accompagnato tutta la tradizione cristiana, è stato spesso contraddetto nell’inevitabile intreccio con i dati culturali di ogni epoca. Come uscirne allora?
«Anzitutto non lasciandosi tentare dalla voglia di mollare. Rimanendo dentro la Chiesa. Bisogna avere il coraggio di dire no recuperando spazi dove si pensi assieme. – conclude la teologa – In quanto donne, non dobbiamo aver paura di prendere consapevolezza del problema, ma dobbiamo anche avere il coraggio di confrontarci con gli uomini. La svolta sarebbe quella di far parlare i maschi della loro mascolinità».