Il camper è parcheggiato tra il marciapiedi e la strada. I volontari attendono i primi pazienti, che ad uno ad uno si mettono in fila per la “visita mobile”. I medici stringono mani, riempiono schede. Il primo a salire sul camper di MEDU è Hassan, viene dall’Afghanistan, ha 35 anni ma ne dimostra parecchi di più. Ha problemi respiratori. Da un mese dorme in stazione, ed è in lista d’attesa per un alloggio dignitoso alla Casa della Pace. Hanif, giovanissimo afghano, traduce la diagnosi della dottoressa, e scrive su un foglio la prescrizione che poi porge a Hassan.
«Bisognerebbe approfondire con una radiografia toracica», dice. La dottoressa è una ragazza, lavora all’ospedale di Genova. Viene a Roma nei week-end e in quei giorni fa la volontaria con MEDU – Medici per i Diritti Umani.
Chiede al suo silenzioso paziente di sollevare il maglione. Punta lo stetoscopio: «C’è qualcosa che mi preoccupa nel suo modo di respirare – dice – Certo dormire in strada non aiuta… Non posso escludere che sia qualcosa di più serio».
Hassan parla pochissimo, non chiede nulla. Vuole solo sapere da che dipende quel rantolo. Poi lascia il suo numero di cellulare ai medici e attenderà d’essere chiamato per la radiografia. Dopo di lui sale Murad che è egiziano e fa il meccanico ma in questo momento non lavora: «La guardia medica mi ha dato un antibiotico ma non mi fa ancora effetto», spiega deluso. Il terzo paziente è rumeno e anche lui vive in strada. Ha perso lavoro, casa e fidanzata. Su questo camper trova persone disposte ad ascoltarlo. Oltre che a prescrivergli delle pastiglie contro il mal di testa.
MEDU nasce proprio a Roma nel 2004 per iniziativa di un gruppo di medici, ostetriche ed altri volontari. In America c’era già Physician for Human Rights. A me colpiscono anzitutto i volontari. E gli operatori. Quelli che si danno appuntamento la sera e sostano in un camper per ore, e impiegano molto del loro tempo qui in strada. Mi colpisce lo sguardo di Hanif. Che è un po’ magnetico.
Al termine della serata andiamo io e lui a prendere la metro e prima passiamo al supermercato della stazione. Hanif beve il suo yogurt e prosegue verso casa. Io non ho fatto niente di speciale. Lui non ha fatto niente di speciale. O sì? Quando riprendo la metro sento che c’è qualcosa in più. Non nella mia testa, non nelle mie tasche. C’è qualcosa in più in una parte di me che non sono abituata a considerare.
Anita mi racconta come sono cambiate le migrazioni in questi anni, osservo i due medici giovanissimi; il ragazzo che ha passato ben due ore in strada, davanti al camper, a parlare con quelli che avevano bisogno di cure mediche.
Guardiamo con stupore i militari che pattugliano il marciapiedi in una assurda ronda notturna. Con i fucili sfiorano i nostri amici senza dimora già addormentati nei cartoni. I fucili pronti all’uso sembrano degli aspirapolvere in cerca di non so che polvere. Noi sorridiamo e restiamo più umani nonostante l’aria che tira.
Nel corso del 2015 MEDU a Roma ha effettuato 766 visite a 695 pazienti, ha fornito orientamento a 270 migranti forzati e ha accompagnato oltre 25 rifugiati nei servizi socio-sanitari e legali. Il 56% dei pazienti senza dimora visitati negli insediamenti informali era rappresentato da migranti forzati tra i quali il 43% era richiedente asilo o già titolare di protezione internazionale e il 13% era costituito da migranti che non avevano ancora presentato richiesta di protezione internazionale o erano in transito verso altri paesi europei. Per quanto riguarda i migranti forzati, gli operatori di MEDU hanno prestato assistenza a pazienti provenienti da Asia, Africa occidentale e Corno d’Africa ed in particolare da Afghanistan, Mali, Eritrea, Costa d’Avorio, Gambia, Pakistan e Ghana. Oltre i due terzi dei migranti forzati visitati aveva un età inferiore ai trent’anni, il 4% era minore d’età, il 30% aveva un età compresa tra i trenta e i cinquanta anni e solo il 2% superava i cinquant’anni.
(L’immagine in evidenza è tratta dalle tavole a colori del calendario MEDU 2016. Disegni dell’illustratrice Silvia Perrone).
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