Una delle chiavi di lettura per spiegare la resilienza circense di fronte alle avversità è la stessa circensitudine. Ossia il radicato senso di appartenenza ad un mondo che si tramanda da centinaia di anni, di padre in figlio. Da quando il circo è nato nella sua forma moderna nel 1768.

Questa catena non si è mai spezzata. Elsa Larible, che oggi ha 86 anni, mi racconta che i suoi nonni hanno dato vita al circo Zavatta alla fine del 1800. E i suoi figli e nipoti, pur innovando, non smettono di fare circo, sotto diverse forme. Suo figlio Tony è il direttore del circo acquatico Zoppis, senza animali. La nipote Elvane fa la stantman. Non si tratta di mancanza di alternative: è proprio una scelta consapevole. La necessità di non spezzare la catena della continuità e di non abbandonare del tutto lo spettacolo, è anche la ragione che spinge ad affievolire le conflittualità interne, trovando il modo di appianare le divergenze.

Mi ha colpito la capacità unica del circo di muoversi, agire e riprodursi, tenendo insieme, dentro un unicum senza pari, tutte le diversità: fisiche, linguistiche, religiose e anche etniche.

Assieme agli artisti del circo vivono e lavorano maestranze operaie provenienti da India, Asia, Africa ed Europa dell’est, che hanno trovato nel circo una sorta di seconda casa, un territorio neutrale, che li rende apolidi e consente loro di lavorare con meno restrizioni e più leggerezza.

Sono migranti arrivati in Italia dopo lunghi ed estenuanti viaggi, che preferiscono continuare a viaggiare, alle dipendenze di un circense, pur di non subire le discriminazioni di una società di ‘fermi’ che non li accetta. E così continuano ad emigrare assieme ai loro datori di lavoro. La fatica è tanta e il lavoro è tosto, ma si sentono parte della carovana.

E questo è un toccasana. Nel circo non si sentono né diversi, né esclusi perché le differenze non solo sono accettate ma rappresentano un valore aggiunto.

Storicamente i circensi non hanno mai guardato alla diversità fisica o etnica come ad una anomalia che condanna le persone. Anzi: dove c’è diversità c’è maggior ricchezza.

La parola magica per resistere alla tentazione dello sfaldamento, della divisione, dell’attrito, è il rispetto. Questi uomini e queste donne ne possiedono molto nei confronti di tutti: stranieri, anziani, maestranze operaie, autorità, animali, pubblico.

Una seconda chiave di lettura è la gioia: al circo si lavora divertendosi, e si spezza il ritmo della fatica quotidiana, godendosi momenti di scherzo, di festa e di gioco.

L’elemento ludico è sia dentro che fuori il tendone. E questo aiuta tutti, anche le maestranze che sono in tournée, a sopportare meglio la nostalgia di casa.

L’interrogativo che è andato crescendo nel corso della mia ricerca è: se i circensi sono in grado da sempre di convivere in spazi ristrettissimi, rispettandosi reciprocamente e accettando le differenze, perché non dovremmo riuscire noi ‘fermi’ a costruire dei modelli di integrazione sociale privi di paure e di pregiudizi, finalizzati ad una crescita comunitaria?

Potrebbero diventare, loro, uno stimolo virtuoso per l’intera nostra collettività? La chiave di tutto questo ce la stanno donando. Dovremmo avere occhi per vedere e orecchie per ascoltare, senza pregiudizi.  Clicca qui per visualizzare la Cover_Test_n26 De Bonis

CIRCUS PRIDE, Orgoglio circense e convivenza in carovana.

Ilaria De Bonis

Editrice Tau Luglio 2020

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