L’ultima disputa sulla terra in Kenya (una delle infinite “guerre” tra Davide e Golia, per la verità) riguarda la piccola comunità di contadini della contea di Murang’a, nell’area centro orientale del Paese, un tempo la Fort Hall dei britannici. In quest’angolo di Africa da dieci anni il magnate californiano della frutta in scatola, Del Monte Kenya Ltd., tenta di sottrarre terra ai suoi abitanti, i quali affermano invece di averne pieno diritto in quanto già vittime di espropriazione durante il periodo coloniale.

Il gigante delle conserve alimentari combatte per impiantarvi coltivazioni estensive di ananas, rinnovando il suo leasing in scadenza su ben 22mila acri di terra (ossia, novemila ettari). E chiede al governo (disposto a cederglieli) altri 10mila acri di suolo coltivabile. La Kandara Residents Association (gli abitanti del municipio che si sono costituiti in associazione per affrontare la Del Monte in tribunale) si oppone al rinnovo della “locazione”.

E ha anche richiesto che tra i cinquemila e gli ottomila acri di terra siano destinati ad uso pubblico. Gli Stati Uniti hanno alzato il tiro e offrono di costruire un ospedale pubblico nella zona delle coltivazioni di ananas. Ma una compensazione non basta.

«Gli Usa e la Del Monte non hanno mai avuto problemi ad andare incontro alle esigenze dei locali – ha dichiarato un portavoce – è forse il metodo che è sbagliato. Ma siamo vicini al superamento dell’impasse». Chi vincerà la disputa? E perché tanta determinazione da parte dei contadini, nell’ostacolare una multinazionale che potrebbe tutto sommato favorire l’occupazione?

Coltivo, dunque esisto

Avere il diritto di coltivare, possedere, abitare, e persino “contemplare” la propria terra vuol dire tutto per una fetta enorme di popolazione africana. Lo spiega bene Maghesha Ngwiri, editorialista keniano del Daily Nation, esperto di questioni legate alla proprietà, che parla di emotive land issues. 

La terra in Kenya – ma anche in Mozambico, in Etiopia, in Zimbabwe, in Uganda e ovunque si assista a pratiche di land grabbing più o meno conclamato – «non è solo un oggetto economico».

E’ più che una fonte di reddito: è una «questione vitale che riguarda l’emotività», spiega Ngwiri, poiché incide sull’essenza di intere comunità; sul loro diritto ad esistere, e a lavorare la stessa terra dei propri avi e di coloro che lì sono seppelliti. È anche un modo per riscattare decenni di colonialismo.

La terra è, insomma, una questione ontologica, prima ancora che economica. Inoltre, l’agricoltura famigliare e di comunità è considerata un valore da queste parti.

Eppure la maggior parte degli “impoveriti” nei tanti Paesi soggetti a forme di neo-colonialismo predatorio, non hanno modo di affermare il loro diritto di proprietà.

La terra è spesso statalizzata, e concessa solo “in uso” ai contadini. In Mozambico ad esempio, «in base alla Costituzione, la terra appartiene allo Stato, ma non c’è un solo lembo libero.

Non esistono appezzamenti di terra che non siano coltivati da piccoli nuclei famigliari – ci spiega al telefono da Maputo Thomas Selemane, condirettore dell’Osservatorio do Meio Rural – Eppure le multinazionali quando arrivano sul posto la considerano vacante e la occupano». I contadini sanno di possedere quella machamba perché era dei loro nonni, ma non possono dimostrarlo. Le comunità patteggiano, ma hanno un bassissimo potere negoziale.

Come ha scritto di recente l’Economist, «solo il 30% degli abitanti del mondo possiede oggi dei titoli di proprietà formali. Nell’Africa rurale subsahariana lo ha solo il 10% della popolazione. Appena il 22% dei Paesi, e solo il 4% di quelli africani, ha mappato e registrato i terreni privati nelle capitali».

Questo è un grande deficit per gli impoveriti che vedono il suolo e il sottosuolo svuotarsi di anno in anno senza poter bloccare la predazione, se non a prezzo di enormi sacrifici. 

Mozambico sventrato 

Forse quello più eclatante è proprio il caso del Mozambico, «che fa gola a molti Paesi e a molte aziende», dal momento che le sue risorse sono solo all’inizio della predazione. Ce lo spiega da Nampula padre Massimo Robol, missionario comboniano.

«Il Mozambico di oggi somiglia al Congo belga degli anni Sessanta – dice – E’ una specie di forziere quasi intatto. Un Paese vergine dal punto di vista delle potenzialità».

E’ ricco di tutto e si trova in una posizione strategica; da una decina d’anni l’aggressione estrattivista ha accelerato il corso, e il Paese viene letteralmente svuotato, giorno dopo giorno di minerali (rubini, oro e gas al Nord), legname e terra arabile soggetta al land grabbing in tutta l’area centro settentrionale, favorita dalla costruzione di un corridoio, quello di Nacala, che vede le risorse attraversare su ferrovia il Paese per finire al porto e da lì prendere il largo.

Secondo i dati della Focsiv, il Mozambico è al 6° posto tra i dieci Paesi che hanno ceduto più terre in assoluto: 2,6 milioni di ettari sono stati svenduti, dopo i 6,4 della Repubblica democratica del Congo. Scongiurato per ora il pericolo del mega progetto governativo di agro business chiamato ProSavana (che coinvolgeva Brasile e Giappone), il Paese è ancora nel guado. Le multinazionali non si scoraggiano: chiusa una porta, si apre un portone. 

Nel frattempo, dice ancora padre Robol, la Banca Mondiale ha finanziato il Sustenta, un modello agricolo che ricalca quello cinese e brasiliano e che dovrebbe creare una nuova classe media, ma che rischia di essere un flop.

Dal ProSavana si è invece passati al Projecto de extensao e modelos (PEM), sulla falsa riga del Prodecer brasiliano. Ossia, fornire sostegno tecnico e logistico ai piccoli agricoltori nelle aree rurali più remote.

Ma gli attivisti e i missionari temono che nelle province di Nampula, Zambesia e Niassa, il governo di Maputo, assieme ai suoi finanziatori, voglia solo conquistare la fiducia delle famiglie per poi proporre un altro tipo di scambio e tornare a minacciare l’integrità degli appezzamenti con estensioni di eucalipti e soia, che comunque sono tutt’ora molto presenti. Ancora più grave è naturalmente la predazione di Cabo Delgado, sulla costa settentrionale del Paese, ricchissima di gas naturale, i cui giacimenti sono ancora in fase di “esplorazione” e anche la nostra Eni è presente con piattaforme in mare.

Il problema sono le concessioni governative molto “libere”. Qui le potenzialità di estrazione futura sono infinite e non a caso i gruppi jihadisti da tre anni avanzano per occupare le terre abitate, terrorizzando con violenza disumana le popolazioni che ci vivono.

Mega-oleodotto tra Uganda e Tanzania

Non va certo meglio nel sottosuolo di altri due grandi Paesi dell’Africa orientale: un mega progetto industriale è stato avviato per la costruzione di un oleodotto che collegherà l’Uganda alla Tanzania, fino al porto di Tanga, al confine col Kenya. È l’East Africa Crude Oil Pipeline (EACOP) lungo 1.443 chilometri, un record mondiale, per un investimento pari a 3,5 miliardi di dollari; un mostruoso tubo di cemento che non solo sottrarrà terra coltivabile ai contadini attorno al lago Alberto, ma minaccia di devastare l’ambiente, come denuncia Oxfam.

Il petrolio verrà estratto in Uganda e condotto attraverso la Tanzania, il Paese di transito. «Oltre 12mila famiglie rischiano di perdere la terra e i mezzi di sussistenza», avverte anche l’International Federation for Human Rights.

L’allarme è partito e si parla di devastazione africana, anche perché la pipeline sarà fonte di inquinamento della terra e delle falde acquifere.

Sono partner del progetto l’Uganda National Oil Company, la Tanzania Petroluem Development Corporation (TPDC) e tre compagnie petrolifere tra cui la francese Total. Facile immaginare a chi andranno i profitti. Ma se i proventi del petrolio estratto raggiungessero realmente le popolazioni interessate, sarebbe comunque una risorsa contro la povertà. Il punto è che il business per le compagnie straniere è troppo ghiotto.

Un portavoce governativo della Tanzania ha assicurato che i proventi stimati arriveranno a 3,24 miliardi di dollari e che l’oleodotto creerà 18mila posti di lavoro in 25 anni. Ma saranno davvero questi i numeri dei nuovi impieghi? E chi garantirà sui loro salari e sulla sicurezza? L’oleodotto rimane un progetto da monitorare attentamente, e in un certo senso da osteggiare, perchè non è quello che le popolazioni locali speravano per il loro futuro e per quello dei propri figli.

La conclusione è che la rinascita economica dell’Africa e il suo percorso verso l’abbattimento della povertà, non possono basarsi assolutamente sull’estrazione indiscriminata delle risorse minerarie e agricole a danno delle popolazioni locali.

Questo è un presupposto pericoloso perché non genera abbondanza condivisa ma ulteriore miseria per molti e ricchezza per pochissimi.