Quello che sta accadendo in Sudan, scrive il Washington Post, è qualcosa di più di una rivolta popolare per il rincaro del prezzo del pane (peraltro triplicato nel giro di poche settimane), e questo il dittatore Bashir lo sa bene.

In tutto il Sudan è in corso una sobillazione generale che ha messo letteralmente a ferro e fuoco le principali sedi del partito al potere, e che si è propagata in ben 23 città, anche quelle più periferiche, per dire no ad un regime oppressivo e liberticida.

Le parole gridate dagli altoparlanti sono:«libertà, pace, giustizia e cambio del regime». Le manifestazioni represse nel sangue sono iniziate ad Atbara, nel nordest del Paese, e rappresentano una esplicita richiesta di dimissioni del presidente. Ma si tratta di qualcosa che mai si era verificato con tale intensità e globalità: coinvolge diverse categorie di lavoratori e professionisti.

I sindacati di categoria, le associazioni di studenti, quelle dei professionisti e il Network dei Giornalisti Sudanesi, ad esempio, si sono da subito schierati contro il regime, a difesa della gente e dei loro stessi interessi. Tanto che il sito di United World International si chiede se non sia in corso «una nuova primavera araba».

Il giornale on-line Eye Witness segue molto da vicino la protesta e così fanno in generale i quotidiani africani ed Al Jazeera.

Tutti riferiscono che il Sudan possiede delle organizzazioni rappresentative del mondo del lavoro che sono da tempo molto strutturate e adesso, del tutto compatte, scendono in piazza. Amnesty International calcola che finora i morti sono una quarantina. Poiché la polizia non esita a sparare sulla folla. E la folla dà fuoco alle sedi dei partito.

«Noi dichiariamo tre giorni di sciopero a partire dal 27 dicembre, per protestare contro la violenza perpetrata dal governo contro i dimostranti», aveva scritto il Sudanese Journalists Network a ridosso dei primi moti.

Il network è anche molto attivo su twitter con la pubblicazione di foto e video degli scontri di piazza. Ma i media sono sotto stretto controllo, anche twitter lo è, tanto che al momento in cui andiamo in stampa i tweet dei giornalisti locali si fermano al 28 dicembre e l’account del network è segnalato come pericoloso, molti giornalisti sono finiti in carcere e la repressione avanza.

La verità è che la gente in Sudan, soprattutto la classe operaia, non ne può più del National Congress Party e di Omar Hassan al Bashir, al potere dal 1989. E’ una mobilitazione totale della della working class sudanese, questa, in particolare nelle piccole città periferiche dove i tagli alla spesa pubblica adottati dal National Congress Party hanno annientato i lavoratori.

«Non è un caso che le manifestazioni siano partite ad Atbara – scrive il Washington Post – famosa per il potente sindacato dei lavoratori delle ferrovie».

Ad Atbara le proteste sono state particolarmente violente e ancora più dura è stata la reazione delle forze di polizia. Da allora è scattato lo Stato di emergenza.

C’è anche un altro dato che la stampa africana ed europea mette in luce: nei giorni della rivolta gli storici leader dell’opposizione a Bashir sono tornati alla carica e qualcuno è perfino rientrato dall’esilio come l’ottantatrenne leader del National Umma Party, Sadiq al-Mahdi, assente per oltre dieci mesi dal Paese.

Questo, dicono gli editorialisti, può voler dire molte cose, tra cui il fatto che la vecchia guardia si prepara a prendere il potere, dopo eventuale colpo di Stato o deposizione non violenta di Bashir.

Bisognerà capire se gli studenti e gli attivisti saranno d’accordo nel farsi scippare l’autonomia, soprattutto se il testimone della protesta viene raccolto da formazioni politiche vecchie o poco rappresentative.

Il discrimine è sulle riforme: chi vorrà davvero introdurle? Un semplice cambio di regime non garantisce la democrazia e questo il popolo lo sa bene, e stavolta è davvero stanco di dittatori sanguinari.