La regina Vittoria, re Leopoldo II e Cecil Rhodes. Le statue dei “padri” e delle “madri” (matrigne) del colonialismo africano, sono state abbattute o semplicemente tolte dal piedistallo in Africa decenni fa.

Qualcuna, come quella del britannico dal quale prese il nome la Rodesia, oggi Zambia e Zimbabwe, crollò sotto i colpi dei picconi nel 2015 all’Università di Cape Town.

La protesta iconoclastica del movimento Black Lives Matter, che oggi imperversa negli Stati Uniti e nell’Europa colonialista, è stata già realizzata in Congo, Sudafrica, Kenya, Zimbabwe, Senegal decenni fa.

Quella attuale è una presa di coscienza occidentale dei danni del colonialismo e dell’importanza delle icone. Tanto che sta aprendo un dibattito necessario e sortendo degli effetti. I capi di Stato e di governo   iniziano a fare mea culpa.   e le statue ‘saltano.

La ‘caduta’ in Africa, già da decenni, dei simboli coloniali viene ricordata in un bel pezzo del New York Times: «In Congo una statua che onorava il sovrano colonialista Leopoldo II di Belgio (una copia di quella che oggi è al centro delle manifestazioni belgiche) è stata abbattuta decenni fa. Eretta nel 1928, ne fu ordinata la deposizione dall’allora dittatore Mobutu Sese Seko, otto anni dopo l’indipendenza del 1960».

Prendersela con i simboli di pietra «non sarà magari la soluzione ottimale (testualmente un silver bullet) – dice pure il Guardian – ma è già un inizio». Quantomeno ci sta obbligando a ripensare la Storia; a rileggerla. A prendere atto della brutalità del passato.

La stampa estera, compresa quella africana (da Africa News in Congo, al quotidiano francofono Jeune Afrique), racconta le piazze di oggi, a Nairobi e Pretoria, per esempio dove si è manifestato contro il colonialismo e il razzismo.

Tutti gli editoriali forniscono una interpretazione in chiave rivoluzionaria della furia iconoclasta delle proteste: i giovani americani, europei, africani, scesi in piazza, chiedono di «decolonizzare l’immaginario».

Si tratta di un primo passo molto fisico per prendere totale consapevolezza dell’ingiustizia legata al passato coloniale che alimenta la diseguaglianza odierna. E superarla.

I media raccontano con dovizia di particolari (fra tutti il kenyano Daily Nation) le proteste «to end white supremacy». Porre fine al suprematismo bianco.

Questa, in Africa come negli Usa, è diventata una esigenza irrinunciabile. L’uccisione atroce di George Floyd a Minneaopolis ha dato la stura ad un sentimento popolare che aleggiava a fior di pelle in America. Acutizzando il dolore per una ferita che non si è mai rimarginata. Ciclicamente, anzi, si riapre. Stavolta però la protesta è diventata globale. Ha rotto gli argini.

Quella africana di qualche anno fa, invece, non era stata universale. Un editoriale del Guardian ricorda un fatto rimosso, poiché la memoria dell’Occidente è labile quando si tratta di Africa: l’avvio nel 2015 del movimento Rhodes must fall (che inneggiava non solo alla caduta della statua del primo ministro razzista di Cape Town, Cecil Rhodes, ma alla decolonizzazione).

Ne ha parlato in questi mesi anche il quotidiano on line The Sudafrican: partito nel 2015 da Cape Town, in breve tempo il movimento studentesco infuocò Oxford. E continua oggi ad avere ripercussioni forti sul processo di revisione del suprematismo bianco a Johannesburg e in altre città sudafricane. France 24 intervista i giovani africani delle principali piazze del continente: in Ghana e Senegal si «paga un tributo a George Floyd».

A Dakar «sulla Corniche, di fronte all’Oceano che separa l’Africa dagli Stati Uniti – si legge – 50 persone (il massimo numero consentito dalle norme sul Covid-19) si sono inginocchiate in un luogo simbolico. Le Corniche sorgono nei pressi del monumento agli schiavi».

La stessa Unione Africana si è pubblicamente espressa, con le parole del suo portavoce, per condannare «nel modo più incisivo possibile l’uccisione di George Floyd per mano di un rappresentante della legge negli Stati Uniti».

E ha poi fatto riferimento alla prima conferenza dell’Unione nel 1964 al Cairo, quando Malcolm X, storico leader nero, prese parte all’evento come osservatore. Lo stesso articolo di France 24 ricorda che un centinaio di scrittori africani si sono espressi in questi giorni collettivamente, auspicando che dal dolore per Floyd si arrivi ad un revival del «sogno panafricano».

La speranza è proprio questa: che la morte di George (e come la sua quella di centinaia di altri afroamericani vittime della violenza di polizia) non sia stata vana ma diventi feconda. In Africa, come negli Stati Uniti e anche in Europa.

È qui che è ancora profondamente necessario fare i conti con un passato di violenza coloniale per nulla indagato o appena investigato, con frequenti sentenze di auto-assoluzione.

L’evento drammatico dell’uccisione di un uomo soffocato dalla violenza bruta di un poliziotto ‘bianco’ (I can’t breath è diventata ormai una frase iconica) potrebbe dar avvio ad un revisionismo storico autocritico sul colonialismo, di cui tutti gli europei dovrebbero sentire il bisogno. Noi italiani in prima fila.

Diversi commentatori del nostro Paese, pur divisi sull’imbrattamento alla statua di Indro Montanelli, sono però compatti nell’affermare che è arrivata l’ora di «rimuovere il rimosso». Ed intraprendere un’analisi storica sugli effetti devastanti del colonialismo nostrano.