La strada che collega Ponte Mammolo a Tor Sapienza è il grigio viale Palmiro Togliatti, storica arteria di cemento lunga una decina di chilometri. Ma il vero filo conduttore tra queste due zone di Roma est è la povertà, che va di pari passo col degrado urbanistico.

La penultima fermata della metro B ci lascia sotto i piloni giganti di un ponte che prende il nome di quello romano del V secolo, il pons mammeus. Siamo a Ponte Mammolo. Coperta dalle sterpaglie e dai canneti si annida una vita clandestina, fatta di baracche e stracci. Uomini-ombra, fiati sospesi e sguardi bassi.

La baraccopoli dei profughi delle Messi d’Oro è una cittadella autogestita che ricalca perfettamente le bidonville africane ed è quasi invisibile agli occhi. Una stradina centrale collega le tante porte sbilenche, ognuna col suo numero civico. Dentro troviamo perfino un bar e poi i bagni pubblici con allacci abusivi all’acqua: le baracche sono cubetti di cemento con i materassi sporchi, buttati in terra per dormire. Nella baraccopoli si mangia assieme, ci si ritrova e si organizza alla meno peggio una quotidianità.

Queste vite arrangiate, nei non-luoghi di Roma capitale, acquattate in una dimensione parallela, non incrociano quelle dei romani se non per caso. Ma la povertà degli ultimi arrivati batte sempre più spesso con quella dei quartieri popolari romani. Nelle frange marginali di convivenza forzata si annida il conflitto. Tor Sapienza è un esempio che calza a pennello.

«E’ diventata una periferia d’enclave, di frammenti che non riescono ad interagire», dice la sociologa Adriana Goni Mazzitelli.

Da Ponte Mammolo a Tor Sapienza

Ecco viale Giorgio Morandi: l’ellisse di palazzoni popolari degli ultimi anni Settanta di un azzurro scolorito, con al centro quel che resta dei prati condominiali. All’altezza della strada una galleria di cemento – la spina centrale – ormai icona del fallimento architettonico. Lo spazio lasciato vuoto dai negozi è diventato una zona d’ombra.

Al posto dei negozi chiusi oggi ci sono le case occupate. Il ferro arrugginito. Il cemento sporco. Una signora rumena vive nel seminterrato con tanto di targhetta sulla porta. «Quando chi gestiva quegli spazi ha capito che doveva vedersela con la microcriminalità e con l’apertura dei centri commerciali, ha chiuso bottega lasciando la spina centrale abbandonata», scrive Goni Mazzitelli.

Carlo Gori, artista, curatore e animatore del Circolo culturale municipale Giorgio Morandi, ci accompagna in un tour del quartiere che comprende i bei murales della piazza tonda, opera sua e di altri artisti.

«Quando sono arrivato qui, 13 anni fa, c’era un senso pratico che ostacolava il progetto creativo dell’arte. Ci si chiedeva: “Perché occuparsi del bello quando ci sono impellenze pratiche di altra natura?”».

Tema che ritorna oggi di grande attualità. La gente vuole solo sentirsi al sicuro, protetta, ascoltata. E non vedere più i cassonetti riversi in strada. L’arte può attendere. O forse no.

Marina, cresciuta nelle case popolari dell’Ater negli anni Settanta, racconta che a quei tempi c’era anche la farmacia, la biblioteca, poi il parrucchiere e la tintoria. Non si stava male. Da bambini scendevamo giù fino alla sera tardi e giocavamo a nascondino». Un progetto originario prevedeva persino una fermata della metro B, ma venne accantonato. L’architettura modernista non aveva fatto i conti con la realtà:

I rifugiati nella struttura di “Un sorriso”

Dall’altro lato della strada predomina il rosso mattone e svettano uffici mai utilizzati con i vetri a specchio. Qui è ospitato il Centro d’accoglienza per rifugiati e richiedenti asilo della Cooperativa Un Sorriso. E’ su questi ragazzi che la rabbia degli abitanti s’è scatenata a novembre scorso, in un crescendo di proteste e sassaiole.

Esasperazione? Lotta per la sopravvivenza? Razzismo? Il parroco di San Cirillo Alessandrino, don Marco Ridolfo, la chiama «ignoranza dell’altro». Il comitato di quartiere e gli abitanti puntano il dito contro la crisi economica e l’abbandono da parte delle istituzioni.
L’intolleranza si unisce alle tensioni naturali della borgata: rom, rumeni, rifugiati africani, profughi afghani, delinquenza locale e degrado romano finiscono tutti nello stesso calderone. Sta di fatto che 35 minori non accompagnati sono già stati trasferiti e il Centro verrà presto rimosso da Tor Sapienza.
«L’inasprimento dell’arrabbiatura contro la politica e la valorizzazione in negativo del degrado sono andati di pari passo», ci spiega Carlo Gori.

«Negli ultimi tempi il tema dei rom, dei righi tossici e dei rifugiati si era fatto impellente anche per chi non lo sentiva necessariamente sulla propria pelle», dice. L’enfasi mediatica sulla pericolosità dell’area ha acceso la miccia.

«Poco prima di novembre gli abitanti avevano sorpreso dei ladri a tentare di svaligiare le case – ci spiega Marcello Filzi, presidente del neo-nato Comitato di quartiere Morandi-Cremona – Poi c’è stato l’episodio della violenza sessuale nel parco. Allora sono scesi tutti in piazza: è scoppiata una bomba».

Marina la chiama “guerra tra poveri” e «politica di Robin Hood al contrario»: lei faceva l’addetta mensa al Senato, oggi se potesse chiederebbe soltanto un lavoro: «ma come facevano i nostri nonni per protestare? Scendevano in piazza no?». Nessuno di loro parla di razzismo eppure tutti si sentirebbero meglio senza quel Centro d’accoglienza difronte casa. E infatti il sindaco ha promesso che lo trasferirà.
Simonetta, 56 anni, parrucchiera disoccupata da quattro, dice che la sua «è una questione di rabbia repressa. Nessuno mi prende più a lavorare. Sono vecchia, tagliata fuori ormai».
La maggior parte di questa rabbia cova dentro. Ascolto Simonetta che piange e si tortura le mani: «Potrei fare molto di più di quello che faccio – dice – Guadagno cinque euro per una messa in piega a domicilio ma ne spendo tre per i biglietti dell’autobus».
Ma che c’entra la povertà degli italiani con quella dei rifugiati e dei richiedenti asilo? Chiedo. Sembra che la condizione degli uni peggiori con la presenza degli altri. Sono davvero così collegate?
Risponde Marcello Filzi, che coglie bene il sentimento generale: «E’ la differenza di trattamento tra l’italiano residente e l’emergenza esterna». La chiama proprio così: emergenza esterna.

«Chi sta in casa e non lavora non riceve un sussidio, mentre agli altri (i rifugiati, ndr) danno due euro e dieci centesimi al giorno per le spese personali». Ecco il punto: pensare che il rifugiato scappato dalla guerra possa toglierci il pane di bocca.
«Gli italiani non arrivano a fine mese – aggiunge Filzi – mentre chi sta là dentro riceve i pasti, un letto, un sussidio. Sono sensazioni… Ma contano». E la politica le manipola.

In una lettera aperta i rifugiati di quella struttura scrivono: «Abbiamo conosciuto la guerra, la prigione, il conflitto in Libia, i talebani in Afghanistan e in Pakistan». Hanno spiegato che vengono anche da Etiopia, Eritrea e Mauritania. «Non siamo tutti uguali – dicono – ognuno ha la sua storia; ci sono padri di famiglia, giovani ragazzi, laureati, artigiani, insegnanti, ecc. ma tutti noi siamo arrivati in Italia per salvare le nostre vite».

Il sindaco Ignazio Marino ha promesso che anche il campo rom di via Salviati verrà svuotato. Il “problema” cambierà destinazione.
Don Marco dice che s’è forzata la mano su questa periferia: «Il quartiere non era pronto. E’ come se ad un bambino che ha la febbre si inietta un altro virus. Il Centro dei rifugiati, il campo rom, le case occupate, la prostituzione, lo spaccio». Troppe cose tutte assieme.

Dalle baracche alle case popolari

Eppure la Storia si ripete. «Io sono nato sotto gli archi del Mandrione – ricorda Remo Pancelli, attivatore dell’associazione Antropos – Un giorno vennero i funzionari dello Stato e ci dissero: “voi qui non ci dovete stare più. Da domani mattina andate via!”».

E così traslocarono. Le case popolari vennero per lo più assegnate a chi lasciava le ultime baracche romane: molte famiglie del Sud vivevano in estrema povertà, anche sotto i ponti dell’acquedotto Felice. Non troppo diversamente dai rumeni di oggi, a Ponte Mammolo. Eccolo il vero link tra due povertà: ma sono la povertà di ieri e quella di oggi.

«Alcuni erano originari del Torrino. Stavano in dieci dentro una stanza. E non potevano entrare nei negozi perché erano meridionali», ricorda Remo. «Possibile che vi siete dimenticati queste cose qui? Dico io. E che nessuno ci pensa più?», ripete. «Qui ognuno deve prendersi la propria dose di responsabilità, anche noi associazioni: non siamo stati in grado di trasmettere il valore dell’altro». Un gancio è saltato.

Eppure Tor Sapienza non era sola: almeno 40 associazioni, polisportive, campetti attrezzati e una parrocchia. Michele Testa, Antropos, Il Ponte, Itinerando, l’associazione sportiva La Sbarra, Terra onlus, Sportello immigrazione, Comitato Alta Velocità, Focus Casa dei diritti sociali, il Centro anziani… Una concentrazione impressionante che però non ha funzionato davvero.

La  cerniera tra le persone e lo Stato si è spezzata anni fa.

«La politica e le associazioni erano purtroppo collegate»: ce lo spiega così Carlo Gori.  Uno dei motivi per cui a Tor Sapienza l’osmosi non si è mai creata è che ognuno cercava di portare avanti la propria bandiera. Si è lavorato più sulla divisione che su un obiettivo comune, nonostante le reti territoriali».

La politica continua a cercare consensi strumentali e fa leva sulle fratture.

Il sindaco oggi pare dialogare solo col Comitato di quartiere Morandi-Cremona, che è la parte più verace e attiva della cittadinanza e anche quella che non accetta intermediari esterni. Filzi dice che finalmente il quartiere s’è risvegliato e la gente ricomincia ad agire.

Il terzo settore e il volontariato invece non capiscono la voglia di questi cittadini d’essere interlocutori diretti della politica. Perché è saltato un passaggio, s’è creata una falla nel sistema e nessuno l’ha riempita. La cerniera tra il singolo e lo Stato si è spezzata.

«Il passaggio diretto dal Comune al cittadino, saltando le parti intermedie, ricrea un dialogo col popolo ma distrugge tutto il resto, anche il buono che c’è», nota Carlo Gori.

Adesso saranno i cittadini a decidere come “curare” il degrado di Tor Sapienza: i progetti del Comitato di quartiere, ottimi per la praticità delle soluzioni, puntano sullo smantellamento delle strutture fisiche. La famosa spina centrale dei palazzoni verrà forse spianata, forse risanata. E il Comune di Roma promette nuovi servizi, altre case, degli orti urbani. In questa storia, per ora, il risultato più evidente è il fallimento della politica e dell’integrazione sociale. Nessuno ha vinto sul serio. (pubblicato sul numero di marzo 2015 di Popoli e Missione)