Nel Sulcis Iglesiente, in Sardegna, un comitato di cittadini si batte per la riconversione della Rwm Italia, la fabbrica di bombe di Domusnovas, da industria bellica a civile. La loro idea ricalca quella della battaglia per la Valsella, che nel 1999 smise di produrre mine.
L’esperienza Valsella insegna: trasformare una fabbrica di mine anti-uomo in un’azienda che produce pezzi di ricambio per le auto si può.
Ci sono voluti anni, battaglie e ricorsi. Ma alla fine la riconversione c’è stata. «A Domusnovas, in Sardegna, sogniamo di fare una cosa simile».
Quando parla del Comitato di cittadini di cui è portavoce, Cinzia Guaita racconta soprattutto un’esperienza di consapevolezza e riconversione culturale. Una conquista della pace che parte dal basso.
«I cittadini sardi finalmente hanno preso la palla in mano e molti hanno detto no alle bombe».
«La fabbrica si è sempre giovata del silenzio e delle mancate prese di posizione, non solo da parte della politica, ma anche da parte nostra, cittadini di Iglesias e Domusnovas», spiega.
La fabbrica di cui parla è la Rwm, ramo produttivo in Italia della Rheinmetall Defence tedesca, da tempo nell’occhio del ciclone per essere la fucina di bombe rivendute all’Arabia Saudita e sganciate principalmente sullo Yemen.
La Rwm Italia ha il suo quartier generale a Ghedi, in provincia di Brescia e la sua produzione in Sardegna, defilata e apparentemente lontana dai riflettori.
«Noi cittadini abbiamo deciso ad un certo punto di smettere d’essere passivi di fronte ad un problema così grosso e il 15 maggio scorso abbiamo ufficialmente dato vita ad un Comitato dal lungo nome: Riconversione della Rwm per la pace, il lavoro sostenibile, la riconversione dell’industria bellica, il disarmo».
La Chiesa è presente grazie ai suoi portavoce e non solo: Cinzia Guaita e Arnaldo Scarpa appartengono ad Umanità Nuova-Movimento dei Focolari.
Durante le settimane sociali di Cagliari hanno ricevuto molto spazio.
In tutto sono 26 le associazioni che ne fanno parte e 41 le persone: tra le tante sigle spiccano la Fondazione Finanza Etica, che fa azionariato critico, Pax Christi, gli Evangelici e alcuni operatori della Caritas diocesana.
La cosa bella è la trasversalità: forse anche un gruppo buddista aderirà al Comitato e poi ci sono i tanti che non hanno appartenenze né religiose né politiche e che si battono per una questione di civiltà.
«Facciamo un lavoro di sensibilizzazione a tutti i livelli: partecipiamo ai convegni, andiamo nelle scuole, parliamo sia in Sardegna che fuori, per portare all’attenzione del mondo il dramma della fabbrica di morte», dice Cinzia.
Da sempre quella del Sulcis è una zona a rischio. Equivoca, sfruttata, male utilizzata. È la zona delle montagne, delle coste spettacolari e delle campagne sarde.
Dove il lavoro scarseggia e l’industria quasi non esiste. Se non, appunto, quella bellica. Non si è mai riusciti da queste parti ad avere fabbriche del tutto “pulite”. Negli anni Novanta vi si producevano esplosivi per miniere.
«Nel 2001 quella fabbrica viene chiusa e riconvertita al bellico con fondi pubblici – spiega Guaita –; da subito ci fu una fortissima opposizione da parte del territorio. All’epoca la Chiesa aveva assunto immediatamente una posizione contraria».
Ma i tedeschi e gli italiani insieme vanno avanti e nasce la Rwm. Negli ultimi 15 anni il grande silenzio: attorno alla fabbrica di Domusnovas regna il mistero.
Almeno fino a due anni fa. I riflettori sulla fabbrica si riaccendono con l’acuirsi della guerra in Yemen nel 2015, e con la scoperta che gli ordigni sganciati sui villaggi, a dilaniare corpi e ferire a morte, recano un inequivocabile marchio: la matrice è tutta italiana.
Sono bombe made in Italy e si chiamano MK81, MK82, MK83, MK84, bombe d’aereo di penetrazione BLU 109, BLU 130, BLU 133, Paveway IV.
Poi ci sono quelle cosiddette “intelligenti” anti-sommergibile e testate per missili Cruise.
«A quel punto il silenzio omertoso sulla fabbrica, cresciuta come un fungo velenoso, non è più possibile», prosegue Cinzia.
«Qualcuno comincia a fotografare i carichi di bombe che di notte arrivano all’aeroporto di Cagliari-Elmas e da lì vengono imbarcati per l’Arabia Saudita».
A denunciare ci sono osservatori attenti, come la Rete Italiana per il disarmo e tanti pacifisti. Non è semplice però prendere una posizione contro la Rwm perché di mezzo c’è il lavoro di tanta gente: almeno un centinaio di operai, cittadini sardi, padri di famiglia che altrimenti non avrebbero di che vivere.
«La questione è delicata: tra i nostri alunni ci sono i figli degli operai della fabbrica. Noi non abbiamo voluto dei contatti con i vertici dell’azienda ma con i lavoratori sì», spiega ancora Guaita.
«In un primo momento abbiamo avuto delle confidenze da parte di alcuni operai: fanno fatica ad affrontare la contraddizione morale in cui si trovano. Alcuni genitori non possono dire ai figli che lavorano lì, ad esempio, altri vivono un dramma e si fanno sostenere a livello psicologico. Quando le cose sono andate avanti è diventato più impegnativo parlarne».
Massimo Pallottino ricercatore di Caritas Italiana, che segue da vicino la questione, spiega che «va declinata nel senso della coerenza delle politiche: va bene lo sviluppo economico e i posti di lavoro per la crescita, ma solo all’interno di una coerenza tra sviluppo sostenibile e impiego.
In questo caso non possiamo ignorare che lo sviluppo avvenga a discapito della pace: lì dentro si producono bombe, quelle che hanno fatto migliaia di morti in Yemen».
L’idea ora è quella di sensibilizzare i lavoratori dall’interno, affinché arrivino loro stessi a rifiutare quel tipo di prodotto e pretendere che la fabbrica sia riconvertita in altro.
«Siamo in contatto stretto con Franca Faita che aveva lavorato alla Valsella, la fabbrica di mine antiuomo – conferma ancora Guaita – e lei aveva contribuito enormemente all’approvazione della legge contro le mine.
Dice che la rivoluzione deve avvenire dentro la fabbrica, e la fanno gli operai stessi. La svolta alla Valsella avvenne quando cinque operaie iniziarono a votare contro».
Alla Rwm cambieranno le cose non appena il fronte dei lavoratori si romperà.
Dalle mine alle auto: esempi virtuosi
Chi segue l’evoluzione sa che gli operai della Rwm per ora sono sotto scacco: il loro silenzio in cambio del salario a fine mese. Ma questo tipo di lavoro non è libero.
«Il lavoro di progettazione, di produzione, di vendita e anche di supporto logistico delle armi, e in particolare delle bombe d’aereo prodotte in Sardegna e vendute proprio ai sauditi, non è un lavoro libero – ha scritto il Comitato in un comunicato durante la settimane sociali di Cagliari -. Non è per niente creativo, lontano da chi ne intasca i profitti ed indifferente verso chi ne subisce gli effetti».
Ma dal punto di vista formale la fabbrica agisce legalmente: «Chi sta facendo l’illegalità è il nostro governo – denunciano i portavoce del Comitato – Con la legge 185 del 1990, infatti, alla quale si è pervenuti con grande fatica, si afferma che non è possibile vendere armi ai Paesi in guerra.
Ma di fatto è una legge inapplicata. La vendita delle armi all’Arabia Saudita viene autorizzata dal governo e la si fa passare come necessità della Difesa».
La Rheinmetall Defence, tedesca, fa in un territorio affamato di lavoro quello che non può fare in Germania perché l’opinione pubblica tedesca è più attenta. Infatti la Rwm è italiana ma l’azionariato è al 100% della Rheinmetall.
Il Parlamento europeo ha votato tre risoluzioni che parlano di embargo verso l’Arabia Saudita. Ma quando la palla è passata ai parlamenti nazionali, lì si è fermata. In quello italiano ha trovato il grande tappo. «È stato chiesto ai deputati di applicare la legge 185», dice Cinzia. Ma la risposta è stata picche.
La possibilità di aderire al Comitato rimane aperta a quanti condividono i principi ispiratori e il suo regolamento: il passo successivo, oltre alla battaglia numero uno per la riconversione, sarà quello di impedire che la fabbrica possa espandersi, cosa che già la casa madre ha iniziato a valutare.