Anabelle ha il piglio sicuro di chi sa cosa dice. Gesticola con scioltezza agitando mani affusolate. Occhi mediorientali puntati sull’interlocutore, parla un perfetto inglese americano. Vorrebbe un fidanzato svedese doc. Lei è arrivata a Stoccolma dal Libano 12 anni fa, è poi ritornata a Beirut dopo l’università, ma le offrivano stipendi ridicoli per lavori manuali, e così ha fatto marcia indietro. Oggi è una splendida ventinovenne in carriera. Si sente svedese a tutti gli effetti: “lo parlo così bene che alle volte correggo gli stessi nativi”, confessa. “Ho studiato molto a scuola perché volevo essere una di loro”. Lavora per una multinazionale farmaceutica e guadagna almeno tremila euro al mese: “mi sono comprata casa a Sodertalje. Quando siamo arrivate in Svezia, io mia mamma e mio fratello non ce la passavamo mica bene. Mio padre ci aveva abbandonato molti anni prima. Mia madre per noi due ha fatto sacrifici enormi: ma adesso posso restituirle tutto”.

La sua amica Cecilia, piercing alle labbra e rose tatuate, argentina di nascita, vanta lontane origini italiane. “Viviamo in Svezia e dobbiamo crescere come svedesi non importa da quale paese veniamo”. Cos’è che non va a Sodertalje, quartiere relativamente povero alla periferia nord di Stoccolma? C’è delinquenza? Chiedo. “Macchè!”, Cecilia risponde, rossa in viso. Siamo sedute ai tavoli di un pub, sotto una veranda. Fuori il molo e qualche barca a mollo. Sodertalje ha tutto l’aspetto di un quartiere residenziale. Eppure è considerato tra i più ‘pericolosi’ sobborghi di immigrati a Stoccolma.

Circa il 39% degli abitanti di Sodertalje viene dall’estero e il numero di immigrati cresce dell’1,5% l’anno. Tra questi al primo posto, ci sono i siriaco-assiri, che hanno addirittura la loro squadra di calcio la Assyriska e un canale televisivo in siriano, la Suroyo tv, con una propria sede decentrata. Il quartiere ospita anche moltissimi rifugiati iracheni scappati dalla guerra. Seguono gli immigrati finlandesi, yugoslavi e cileni.

Gli scontri con la polizia e le violente proteste degli immigrati che a maggio scorso hanno messo a ferro e fuoco la Svezia, sono il risultato di una politica dell’immigrazione che accoglie stranieri per poi relegarli ai margini della città (e della società).  La gran parte dei cambiamenti in senso restrittivo e discriminatorio sono opera dell’Alleanza di centro-destra, al potere dal 2006, alla cui guida oggi c’è il primo ministro Frederick Reinfeldt.

«Vivere da giovane in quartieri come questi può voler dire rimanere completamente isolati dal resto del mondo», e non solo dagli svedesi doc, ma anche da chi ha acquisito la cittadinanza più di recente, spiega Aje Carlbom, antropologo dell’Universita di Malmoe.

La particolarità dei quartieri ghetto di Stoccolma, come Husby, Rinkeby o Sodertalje, è che gli immigrati sono i primi a temersi a vicenda e ad essere sospettosi con i nuovi arrivati. Conducono una silenziosa lotta per la sopravvivenza sociale e l’integrazione culturale. Chi viene da Sodertalje disprezza Rinkeby, chi viene da Rinkeby teme Sodertalje.

Me lo confermano le due amiche del bar di Sodertalje: “La prima domanda che mi facevano appena arrivata in Svezia era: di che religione sei e da dove vieni”, mi spiega Cecilia. “La differenza non è tanto tra svedesi e stranieri, ma tra gli stessi iracheni, siriani, finlandesi. E il governo in questo non aiuta”, spiega la ragazza.

Il sogno di tutti è diventare svedesi. E una volta entrati nel magnifico entourage nordico tagliare i ponti col passato. “Vivendo qui – racconta Anabelle – hai la sensazione di non aver bisogno di parlare altre lingue se non la tua. Se vai in un negozio, perfino in un ospedale…puoi parlare la tua lingua. Dal dentista o dal dottore parlano la tua lingua d’origine. Potresti passare una vita intera senza aver mai bisogno di conoscere lo svedese. Ma una volta che lo fai, allora ti emancipi e la tua vita comincia a cambiare”.

Rinkeby, il Somaliland svedese

Dall’altra parte di Stoccolma (mezz’ora in tutto con la metropolitana dalla T centrale) pochissimi svedesi sono interessati alla realtà delle periferie. Difficilmente un abitante dell’élite di Osterlmam consiglierebbe ad un turista di affrontare un inutile viaggio fin quaggiù. Il controllore della metropolitana prima di mettere il timbro sul biglietto s’aggiusta un ricciolo e mi guarda con preoccupazione. Teme di non aver capito bene la destinazione. “Ho detto Rinkeby, sì proprio Rinkeby”, preciso.

Alle quattro del pomeriggio d’un tranquillo giorno d’agosto anche Rinkeby è in gran fermento. Incontri casuali tra vicini. Spese al supermercato. Passeggini, sigari e kebab. Lente attese del tempo che scorre seduti in panchina. Volano conversazioni in arabo. E saluti in svedese. L’impiegato della biblioteca della volkenahuse, la casa del popolo, cerca un titolo al computer. Nella grande sala di legno Ikea, soltanto lettori somali. Il nerd biondo ha un’enorme montatura di tartaruga e mi guarda soddisfatto quando gli chiedo un libro statistico sul quartiere ghetto di Stoccolma. “Rinkeby non è per niente degradata”, assicura con un gran sorriso. E in effetti nel verdissimo sobborgo fatto di giardini, parchi, scuole, e tanti asili nido, case con balconi e piazzette profumate l’aria è quella ordinata e non statica di Djurgarden, il quartiere ‘reale’ di Stoccolma. L’unica differenza: gli africani. Tanti. Forse unicamente africani.

Donne con i jihab, bambini, famiglie, per l’80% somali e tutti con un gran sorriso. Il tasso di criminalità a Rinkeby è ridicolo. Quando nel 1992 a Stoccolma imperversava il killer Jhon Ausonius (qui lo ricordano ancora con un brivido di terrore) il persecutore di immigrati chiamato laserman – che in pochi mesi aveva sparato a undici persone, facendone fuori una – alla volkenhaus di Rinkeby si tenne una delle riunioni fiume con oltre 300 persone stipate nei locali ad ascoltare il premier Carl Bildt che cercava di calmare gli animi della gente. Gli abitanti di Rinkeby in quei mesi avevano paura. Oggi fanno comunità, si sentono protetti, sono in tanti e sono uniti. Fanno eccezione alla gran massa di abitanti somali, diversi sudamericani arrivati a Rinkeby ai tempi delle dittature.

Alla fermata della metro, centro delle attività diurne, sento parlare una lingua che a me pare mista, un mix di arabo e svedese. In inglese nessuno mi risponde. Nell’asilo dove insegna Sigrid dagli occhi blu cobalto, arrivata qui dall’Islanda nel 1974, il piccolo Omar consegna tre pacchetti morbidi a maestre e bidelle. Per ferragosto la scuola rimarrà chiusa e sua mamma ha voluto fare dei regali. “Quando io ho deciso di venire ad abitare a Rinkeby la Svezia era veramente un paese socialista – racconta Sigrid – E Rinkeby era veramente un quartiere multietnico. Adesso è solo un ghetto somalo e la gente è poco integrata col resto di Stoccolma”. Dice che la volkenhaus un tempo era più ‘popolare’ di ora. “Adesso che non c’è più la socialdemocrazia al governo i servizi non sono tutti completamente gratuiti e qualcosa devi pagarla allo stato”.

Certamente non la scuola, però. Né le cure mediche per i bambini. Gli immigrati in regola godono più o meno i vantaggi del welfare state di uno svedese doc. E siccome questi vantaggi un po’ si vanno assottigliando per tutti, persino qui, il cittadino medio se ne rammarica. E qualcuno ne approfitta. L’Alleanza per la Svezia, colazione di centro-destra che è al governo, comprende il Partito Moderato, il Partito di Centro, il Partito del Popolo e i Cristiano Democratici. Nel 2010 non è riuscita a ripetere il successo del 2006, quando aveva ottenuto il 51% dei seggi al Riksdag, ma forma comunque un governo di minoranza. I socialdemocratici invece sono in forte calo.

Ma il vero pericolo per il Paese è lo xenofobo partito dei Democratici Svedesi, formazione guidata da Jimmie Åkesson. La politica interna svedese non ha mai fatto notizia in Europa. Ma da anni qualcosa cova sotto la cenere di un’apparente normalità. La sera del 19 maggio 2013 a Husby, sobborgo nord di Stoccolma, con l’85% di immigrati, si scatena una piccola guerriglia urbana. I disordini che proseguono per cinque notti consecutive, sono causati da un fatto scatenante: un uomo di sessantanove anni reagisce ai poliziotti che hanno fatto irruzione nel suo appartamento, sfoderando un machete. La polizia spara, uccidendolo. Si scatena un putiferio. Sui media si apre un dibattito. Alcuni puntano il dito contro l’impressionante segregazione residenziale frutto dell’indirizzo conservatore del governo che avrebbe contribuito alla formazione dei quartieri-ghetto. Lo smantellamento dello Stato sociale svedese è andato di pari passo con la crescente presenza dello Stato di polizia nelle aree urbane problematiche, dicono in molti.  Sta di fatto che ad Husby la polizia risponde alle proteste della piazza colpendo i manifestanti con i manganelli, dopo aver sguinzagliato i cani. Uno dei protagonisti di questa primavera svedese di periferia è l’associazione Megafon che punta ad aggregare i giovani dei sobborghi per “costruire – scrive – una società giusta, dove tutti abbiano pari opportunità e dove sia il popolo a decidere sulla politica, e non viceversa”.