La torre-grattacielo a forma di vela più alta di tutta l’Africa (ben 300 metri e 67 piani) sorgerà a Nairobi e sarà opera dei cinesi.

Il gruppo africano Hass Petroleum ha appena annunciato la firma di un accordo da 20 miliardi di shilling con la China State Construction Engineering Corporation.

A parlarne, mostrando la foto del progetto finale, è il keniota Standard Digital. Questa torre di vetro sulla cui cima svetta l’Hilton più lussuoso di Nairobi, supererà l’altro mega edificio del continente: la torre sudafricana del Carlton Center che misura 223 metri.

«L’hass tower dovrebbe aprire i battenti nel 2020, nel distretto di Upper hill e conterrà uffici lussuosi, un hotel a cinque stelle all’interno di un complesso residenziale lussuosissimo», scrive il giornale.

Ecco un esempio di come funziona la collaborazione con i cinesi in Africa. La stampa africana è quasi sempre attenta e non di rado entusiasta delle relazioni economiche tra i due, relazioni che vanno rafforzandosi da oltre 15 anni.

Il Forum China-Africa Cooperation (FOCAC), una sorta di cooperazione economica sino-africana, nata nel 2000, è il simbolo di quanto la Cina sia orientata all’Africa: lo scrive il quotidiano All Africa, riportando in un articolo le parole del ministro degli Esteri di Pechino, Wang Yi.

Yi dice che «la Cina è stato l’amico più sincero dell’Africa nello sforzo di indipendenza e liberazione nazionale, adesso sarà anche il partner più affidabile nel processo di industrializzazione e modernizzazione agricola, favorendo uno sviluppo autoctono».

Il sito africano How we make it in Africa scrive un lunghissimo pezzo sui vantaggi degli investimenti cinesi in termini di infrastrutture e strade. La moderna via della seta cinese passa dal Continente nero. E questo non avviene solo nei grandi Paesi e nelle grandi città: il Mail & Guardian Africa scrive che la Cina è presente anche in Togo e che il piccolo Paese sta rafforzando i rapporti bilaterali col Dragone nella speranza di diventare un punto nevralgico per Pechino.

Il business cinese sembra circoscritto in prima battuta a tutto quello che riguarda la costruzione di strade, ponti, infrastrutture, dighe e settore immobiliare. Ma la rete fisica non è che l’assaggio.

Il presupposto per avanzare nel proprio business.

A leggere le decina di articoli sino-entusiasti l’impressione è che la Cina stia ridisegnando le città africane (e anche i villaggi), applicando lo stesso modello di sviluppo sfrenato che ha adottato in patria. E questo modello non disturba affatto i governi. Che anzi, finora, ci guadagnano. L’Herald scrive che questa politica avrà il merito di tirare fuori gli africani dalla povertà.

«Negli ultimi nove anni – scrive – la Cina ha pubblicato due documenti che spiegano la sua strategia in Africa. Pechino fa chiaramente sapere che non è interessata ad interferire con la politica interna degli Stati africani ma ha due priorità: la modernizzazione agricola e lo sviluppo industriale».

Ovviamente non fa tutto questo per filantropia. Il rapporto Cina-Africa è un rapporto win-win, dicono i commentatori. Ossia tutti hanno qualcosa da guadagnarci. Eccetto forse i più poveri.

C’è anche un forte impegno dei cinesi nell’ampliamento della “rotta marittima” che comprende la costruzione di porti lungo la costa orientale dell’Africa e del Corno d’Africa. E che dire delle miniere?

Anche qui i cinesi sono presenti, naturalmente, perché hanno bisogno di materie prime da estrarre e riportare in patria. Tanto che il calo della produttività interna della Cina preoccupa una parte del business africano: ne parla BizComunity del Sudafrica in un pezzo dal titolo “La sindrome cinese: l’Africa, l’Oriente e le miniere”.

«Il calo dell’economia globale, ed in particolare la diminuzione del tasso di crescita cinese mettono in crisi le imprese manifatturiere».

I prezzi bassi delle commodity africane (dovuti al rallentamento del manifatturiero cinese) hanno reso marginali moltissime miniere del Sudafrica. Come dire che il Sudafrica vive anche delle materie prime vendute alla Cina e se questa rallenta, rallenta pure lui.

L’impressione è che siano tutti molto attenti agli immediati effetti macro e molto meno a quelli di lungo periodo, che uno sviluppo rampante potrà sortire sulle piccole comunità rurali e sulla vita della gente.

Questo approccio all’Africa, decisamente differente da qualsiasi altro al continente nero, viene spiegato bene dal magazine The National Interest, che in un’analisi dal titolo “Che cosa sa la Cina dell’Africa che l’Occidente non sa”, spiega in estrema sintesi che la fortuna di Pechino è data proprio da questo pragmatismo.

La Cina non finge: il suo interesse è il business e lo dichiara. Non è subdolamente neo-colonialista. Semmai non è colonialista affatto, è un opportunismo di altro segno. Non porta “aiuti” come dichiarano di fare le potenze europee, con l’intento nascosto di sviluppare se stesse.

La Cina investe per interesse proprio ed ha l’esigenza di portare sviluppo ad entrambi: tanto più l’Africa “cresce” tanto più i cinesi guadagnano.

Il problema è che la crescita macroeconomica dell’Africa non necessariamente significa benessere per i cittadini. I governi o i privati che fanno affari con i cinesi non pensano ad ospedali, scuole, servizi, medici, terra per uno sviluppo agricolo autoctono.

Il land grabbing di matrice cinese esiste ma fa meno scandalo perché è dello stesso segno del business economico esportato in Africa: è apparentemente condiviso con i governi e le comunità.

La Cina non sottrae terra senza averlo negoziato e in qualche modo pattuito.

Il sito di Sbilanciamoci spiega:

«Il rischio concreto che si sta correndo è la marginalizzazione delle popolazioni locali a favore di uno sviluppo di cui può beneficiare solo lo Stato, in termini di entrate pubbliche ad esempio, ma che non tiene conto dell’impatto sociale ed ambientale, o se la popolazione rurale viene espropriata o se viene fatto un danno all’ecosistema».

L’ultima forma di grabbing cinese però non riguarda la terra ma gli animali: la Cina commercia in avorio in patria e in Africa uccide elefanti e rinoceronti. Il grande mercato che muove l’economia del bracconaggio si trova in Cina. Almeno il 70% dell’avorio illegale finisce lì. Chi consuma corni di rinoceronte è membro della upper-class cinese e vietnamita.

Il Daily Mail dedica ai “ladri” di elefanti un lungo pezzo. E’ un traffico illegale che altera gli equilibri della fauna e la biodiversità africana, scrive.

Dai diamanti, all’avorio al petrolio, la natura è saccheggiata in continuazione. Ma il saccheggio riguarda soprattutto le persone, il popolo, gli abitanti di una terra profondamente ferita. (la foto è tratta dal sito di Capital Business).

Il pezzo è pubblicato su Popoli e Missione