Dilan ha i capelli scuri, le labbra rosse e carnose e stasera è davvero bella. Darya si fa truccare gli occhi e poi indossa un abito da sirena color blu cobalto, che le strizza la vita.

Sono due delle “modelle” curde che hanno sfilato in passerella durante un evento organizzato a Suleymaniya nel Kurdistan iracheno.

Queste splendide donne, impegnate attivamente come stiliste e sarte, vivono in un campo profughi, a Baraka, e provengono dal Rojava, la sudatissima regione autonoma del Kurdistan siriano.

Conquistata palmo a palmo durante il conflitto contro gli uomini dell’isis in Siria, culminato con la battaglia di Kobane. In alcune zone del Rojava ancora è impossibile vivere per via degli attacchi dell’esercito turco. Ecco allora che il campo di Baraka apre le porte a centinaia di famiglie sfollate.

Il corso di fashion design (stilista di moda) è organizzato dalla ong Civil development organization assieme all’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr).

La storia delle curde che nonostante il disagio, gli stenti e la paura hanno mantenuto la voglia di realizzare un progetto di sviluppo, ci dice quanto gli stereotipi di genere (e anche quelli legati alla povertà) siano talvolta fallaci.

Il campo profughi nell’immaginario collettivo è un deserto di dolore e morte; eppure persino in un contesto così precario la vita va avanti e la bellezza femminile trionfa.

I cliché sono spesso rafforzati dalla religione stessa, che tende a stigmatizzare il ruolo sociale della donna soprattutto in Medio oriente e non solo all’interno dell’islam.

Le donne curde sono tra le più emancipate dal punto di vista sociale (hanno anche un peso politico all’interno della comunità); così non è per quelle che vivono in altri contesti fortemente castiganti come l’Afghanistan, o, sul versante opposto, l’Arabia Saudita, dove le donne hanno all’apparenza tutto ciò che desiderano ma sono relegate nell’angusto spazio privato, sottomesse a padri, fratelli e mariti.

All’apparenza hanno talvolta anche un ruolo ‘politico’ ma del tutto svuotato di senso. Come avviene per la ministra della felicità: esiste una carica del genere negli Emirati Arabi Uniti ed è stata istituita un anno fa. E’ ricoperta da Ohood Al Roumi ma non è chiarissimo di cosa si occupi la giovane ministra.

Nelle monarchie del Golfo, tra cui Barhein, Qatar, Oman, Emirati, è comunque il wahabismo (corrente radicale dell’islam più deteriore, integralista e manipolatoria del Corano, di cui gli emiri si fanno garanti) ad imporre un certo modello di donna.

E ad impedire alle “sultane” di guidare la macchina, recarsi all’estero per studio, viaggiare se non accompagnate, svolgere alcuni lavori, essere ammesse negli ospedali senza il consenso tutoriale dei parenti.

E’ una questione di diritti umani, quindi. Ma esse stesse se ne lamentano poco nella misura in cui vengono ricoperte d’oro.

«E’ arrivato il momento di riesaminare gli stereotipi di genere, dettati dalla religione: la visione patriarcale della società, ad esempio, dove la donna è discriminata o costretta a contrarre matrimonio in età molto precoce».

A dirlo è Lakshmi Puri, vicedirettore di UN Woman, l’agenzia delle Nazioni unite che si occupa proprio dell’emancipazione femminile. Quest’anno la consueta Commissione sullo status delle Donne, (riunita dal 13 al 24 marzo per la sua 61esima edizione, al quartier generale delle Nazioni unite) ha avuto tra gli altri l’obiettivo di coinvolgere la religione nel dibattito pubblico.

L’idea è quella di far partecipare i leader religiosi ai panel di discussione e alla stesura dei documenti finali, in modo da mettere la religione a servizio della donna. Un’intuizione importante che lancia una piattaforma interconfessionale e mette insieme «leader religiosi e di comunità, organizzazioni della società civile ed esperti di questioni di genere» per discutere le strategie di liberazione della donna.

La sfida è forte ma la notizia non ha avuto grandissima risonanza mediatica.

L’islam, l’induismo, i culti animisti, il buddismo, l’ebraismo e la fede cristiana influenzano profondamente i comportamenti sociali: è quindi un bene che siano proprio i protagonisti della leadership religiosa a partecipare alla costruzione di modelli “altri” condivisi e tradotti in azioni pratiche, come suggerisce Lakshmi Puri.

A proposito di stereotipi, quello legato al “corpo” delle donne è il più duro a morire. Pensiamo all’Afghanistan, dove la donna oltre all’abbigliamento coprente e castigato (ancora è d’obbligo il burka) è praticamente costretta a trascurare se stessa e il suo benessere fisico.

Questo avviene in tutti i contesti dove un mix di povertà, pregiudizio e stigma sociale ne ostacolano la cura.

Ebbene, questo tabù è stato spezzato, almeno in un caso. A Kabul è nata una palestra per sole donne gestita da una donna. Per noi occidentali la cosa è piuttosto scontata ma in Afghanistan è una specie di rivoluzione. L’imprenditrice che ha avuto l’idea si chiama Shabnam Nazari e ha vissuto in Russia e Uzbekistan: cinque anni fa ha aperto a Kabul “ladies world”, che oltre all’esercizio fisico offre alle iscritte anche un centro estetico, una sauna, la piscina e cure di fisioterapia.

«E’ inevitabile per le donne incorrere in ostacoli imposti dai vincoli della società quando decidono di rompere con certa tradizione ed uscire di casa – ha spiegato Nazari al quotidiano Voanews – ma credo che possiamo combattere insieme per lo sviluppo della donna».

Ricordiamo che l’Afghanistan è tra i Paesi nella lista nera in quanto a condizione femminile: l’85% delle donne è analfabeta e non riceve alcuna istruzione elementare. Le donne che accedono ad una istruzione superiore rappresentano il 18% del totale, quelle che muoiono di parto nel 2010 erano 460 su 100mila. L’aspettativa di vita è di 51 anni.

«La nostra iniziativa – ha detto Nazari all’agenzia stampa Fides – potrebbe sembrare un fatto atipico, ma chi sa da dove provengo poi apprezza i nostri sforzi, e ci incoraggia ad aprire altri centri, ad esempio nella periferia di Kabul».

Un’altra storia che va controtendenza e destruttura il cliché viene dalla Moldavia: alle elezioni comunali di due anni fa vennero elette per la prima volta dall’indipendenza dall’Urss (1991) due donne Rom: Varvara Duminica, 54 anni, che aveva lavorato come mediatrice di comunità a Chetrosu, e la ventottenne Laura Bosnea, al consiglio comunale di Rascani, un centinaio di chilometri di distanza dalla capitale.

Queste due donne sono doppiamente resilienti: si sono misurate con altri uomini in un Paese che discrimina al suo interno la popolazione Rom; e inoltre hanno sfidato il pregiudizio nei confronti delle donne in politica, all’interno della loro stessa comunità. Alla fine hanno vinto loro. A quanto pare i Rom di Moldavia subiscono in patria quasi lo stesso stigma che negli altri Paesi europei, ma Laura Bosnea è riuscita in molti casi a modificare anche l’attitudine degli stessi rom verso l’istruzione e l’isolamento sociale. (foto dal sito ZIV, Kurdish mosaic; immagine in evidenza  da Pinterest “People from Mesopotamia” #painting by Ali Al Tajer #arab #art)