« Che la Cina  sia una classica “economia in via di sviluppo” è evidente a chiunque si avventuri fuori dalle grandi metropoli come Pechino o Shanghai». La fragilità interna del Dragone stavolta è messa a nudo dal gruppo bancario Hsbc con un report dal titolo China and the world, che punta i fari sul paradosso socio-economico cinese.

Seconda potenza al mondo dopo gli Stati Uniti, la Cina è nonostante tutto ancora ‘povera’. E quel che e’ peggio, supera gli Usa in quanto a diseguaglianze di reddito tra l’élite dei ricchissimi e la fascia dei poverissimi (quell’ultimo miglio che pure rappresenta il 9% del totale). 

L’Hsbc usa il parametro del pil pro-capite: «nonostante la crescente influenza globale», scrive, con un pil pro-capite di meno di 8mila dollari l’anno la Cina non può dirsi un’economia sviluppata. Ma esistono parametri più efficaci per misurare il benessere reale, lo sviluppo e la felicità. L’Indice di Sviluppo Umano, ad esempio. Su questo fronte la performance non è brillante: il paese occupa il 90° posto su 188 e misura un indice di 0,719.

Per anni il governo di Pechino si è rifiutato di pubblicare le cifre del coefficiente di Gini e dunque delle diseguaglianze di reddito. Poi nel 2013 ha divulgato i dati dell’intero decennio sull’indice che misura il gap tra ricchi e poveri. Ed erano in contrasto con quelli di altri istituti.

Yu Xie e Xiang Zhou, due ricercatori dell’università del Michigan e di Pechino hanno svelato nel 2014 i numeri reali: tramite un report molto dettagliato calcolano che il coefficiente di Gini per la Cina è compreso fra 0,53 e 0,61. Negli Stati Uniti si attesta a 0,45: il che significa che la Cina è più diseguale degli Usa.

Non solo: anche all’interno delle zone più ricche esistono sacche di povertà estrema. Sono povere le zone rurali e anche le alture del sud-Ovest, come Guizhou, la provincia più desolata del Paese, il cui pil rappresenta il 17% di quello di Shanghai.

Sarà per questo che il Segretario del Partito Comunista Xi Jinping ha annunciato di voler stanare la povertà assoluta entro il 2020: questo il target ufficiale di Pechino, messo nero su bianco dai piani di risanamento.

«Si tratta di raggiungere quell’ultimo miglio e non è facilissimo – spiega Michele Geraci, a capo del dipartimento di Politica economica cinese dell’Università di Notthingam Ningbo in Cina – quell’8/9% di popolazione ancora sotto la soglia di povertà. Sono circa 100 milioni di persone ma i più difficili da contattare». 

Che strategie intende usare il governo?

Anzitutto un piano di “trasferimento”: quasi dieci milioni di persone di 22 province cinesi dovrebbero essere materialmente ricollocate altrove, in zone meno impervie e più facilmente raggiungibili, per una spesa pari a qualcosa come 158 mld di dollari.

Nella provincia di Guizhou si chiama spostamento “guidato” e consiste nel trasferire due milioni di persone dalle campagne nelle 180 città e distretti costruiti appositamente per loro. 

Di che qualità sia un benessere raggiunto a colpi di urbanizzazione, abbattimenti di case, trasferimenti coatti e confische di terreni, è facile immaginarlo.

«E’ un programma ambizioso quello di Xi – aggiunge Geraci – C’è anche un problema di comunicazione infrastrutturale. Gli ostacoli sono fisici ma anche di natura sociologica». Si tratta di immaginare vite d’altri tempi vissute in zone tagliate fuori dal mondo e dalle vie di comunicazione e trasporto. Come fare un salto indietro di cento anni. 

Ma in realtà sono povere anche le periferie delle città dove i migranti vivono da uomini di serie B, privi perfino del certificato di residenza, ammassati in pochi metri quadri di spazio da condividere in tanti.

E tra di essi non ci sono solo gli operai delle fabbriche, ma anche chi riempie il buco della domanda di cibo, servizi e beni a poco prezzo.

«Alcuni degli immigrati spuntano di notte, allestendo piccole bancarelle che vendono cibo agli operai dei turni di notte – si legge nel bel libro-reportage di Ted Fishman Cina spa -. I venditori arrivano da Xinjiang, l’aspra provincia musulmana all’estremità nordoccidentale del Paese. Somigliano più ai loro vicini dell’Asia centrale, come i kazaki che al resto dei cinesi. Vendono kebab di agnello speziato, arrostito sulla fiamma viva su spiedi di bambù. Altri vendono fagottini di pasta ripieni o panini».

 La vita in città per gli ex contadini migrati è, secondo i nostri parametri, poco meno che infernale: eppure la loro percezione è senza dubbio quella di un cambiamento in meglio e indietro non si torna (quasi mai). 

«Dal punto di vista del lavoratore la fabbrica è un passo avanti rispetto al lavoro massacrante dei campi – è l’opinione di Geraci – Il lavoratore che si trasferisce in città sta meglio perchè gode di un flusso di opportunità maggiori. Il cinese medio fa un paragone con il se stesso di cinque anni prima, non con il lavoratore di altri Paesi sviluppati, dunque anche le sue pretese sono minori. Se vogliamo questa Cina qui fatta di migranti interni è simile all’Italia degli anni ’50».

Con la differenza che la Cina del 2016 è inserita in un flusso di sviluppo e crescita mondiale che ne fa la seconda economia globale dopo gli Usa.

«La vita è dura per quei lavoratori che sono lontani da casa, spesso costretti a lavorare comunque in condizioni di miseria – scrive Yinuo Li su Medium.com – Ma può essere ancora peggiore per chi è rimasto indietro». Nelle campagne. O nei villaggi sperduti dove non arriva l’elettricità.

«Per molti immigrati l’unico momento dell’anno in cui poter tornare a casa rimane lo Spring festival – si legge ancora su Medium.com – Quando un miliardo di persone fa ritorno nei villaggi, durante l’evento migratorio più grande del pianeta, noto come la “corsa di primavera”».

Ad aspettarli a casa ci sono gli anziani, ma soprattutto i bambini: quei figli lasciati a vivere con i nonni a sognare una vita migliore.

«Tragicamente – scrive Yinuo Li – ci sono 61 milioni di bambini rimasti a casa».

Sono bambini che vivono il limbo dell’attesa e che qualche volta non resistono al dolore e si tolgono la vita. Sono bambini cresciuti in un mondo a metà anelando ad un affetto che viene loro sottratto. Non va poi meglio neanche per gli impiegati e per la cosiddetta classe media nelle città.

«La vita di questi laureati intelligenti, industriosi, anonimi, malpagati, accalcati in palazzi di periferia somigliava tanto a quella frenetica e oscura dei formicai – scrive Angela Pascucci nel suo Potere e Società in Cina – Così andò e l’espressione ebbe successo».

Formiche. Non api industriose ma formiche. In un contesto anti-democratico che non consente tante lamentele.

«E’ stato stretto un patto tacito con lo Stato: un relativo benessere economico a patto che non si contesti troppo lo status quo. – conferma Geraci – Il benessere in cambio della mancanza di libertà. Il cittadino medio cinese non ha aspirazioni ad una democrazia elettorale. E’ un patto non scritto e il governo riscuote un certo successo. I più giovani che stanno godendo di questo progresso non hanno interesse ad intaccare lo status quo».

Cosa spinge i cinesi alla sopportazione, a quello stoico chinar la testa operosamente senza veder mai la luce, rimane per noi occidentali una specie di mistero. Il potere del regime è anche questo: ottenere consensi puntando sul sentimento di ‘successo collettivo’ e sul senso di appartenenza ad una grande potenza.

Stare dentro questo sistema coercitivo e riuscire però a tenersene sufficientemente alla larga richiede una qualità chiamata resilienza che la popolazione cinese esercita in modo esemplare.

Richiede la capacità di surfare tra le onde della repressione e della concessione, mantenendosi comunque sempre in equilibrio: sono molti quelli che resistono trasformando le proprie vite e adattandole al contesto per non perdere l’anima.

«Sono vite di resistenza – scrive Angela Pascucci nel suo volume – perché non si può solo subire passivamente la trasformazione più veloce e radicale della storia umana, pena perdere se stessi e la speranza nella capacità di costruire il proprio futuro».