Da terra e da cielo; con le bombe sganciate dagli aerei militari, e con quelle dei contractors sul campo: è così la guerra in Sudan si abbatte contro i civili sudanesi, che rischiano due volte la vita, schiacciati su entrambi i fronti da entrambi i contendenti.
Il conflitto in Sudan è sempre più una guerra aperta tra paramilitari ed esercito, dove quest’ultimo bombarda anche i centri abitati – come Omdurman – senza nessun riguardo per i civili.
Ben 22 persone sono morte un giorno fa sotto le bombe dell’aviazione militare, che distrugge le vie di comunicazione per impedire ai paramilitari di spostarsi attorno alla capitale.
Le Nazioni Unite hanno appena messo in guardia circa il rischio di una “guerra civile totale” che potrebbe “destabilizzare” l’intera regione.
Così ha dichiarato il Segretario Generale Guterres in un comunicato stampa diffuso lo scorso 8 luglio.
Sebbene l’espressione ‘full-scale civil war’ non sia da tutti considerata corretta. Anche la violenza contro i civili da parte dei paramilitari delle Rapid Support Forces  è senza limiti.
I civili sono letteralmente “in trappola” e non ci sono forze di interposizione che li proteggano.
«Per scappare da El Geneina, cittadina del Darfur occidentale, in Sudan, bisogna pagare una sorta di pizzo alle milizie delle RSF di Hmedti», ci racconta Adam Nor, attivista sudanese della diaspora in Italia, che è in stretto contatto con parenti e amici in Sudan.
«Per passare i posti di blocco – dice Nor – solo chi ha soldi può scappare dalla città».
«Da Adre, in Ciad, mi raccontano che è stato fatto un censimento ai profughi che entrano nel Paese,  da parte delle istituzioni del Ciad.
Mi è stato raccontato inoltre che alcuni anziani ipovedenti sono stati raccolti dalle forze occupanti in un luogo con la promessa di poter stare in sicurezza, invece poco dopo averli rinchiusi è stato dato fuoco all’edificio con gli anziani all’interno».
Si tratta di «azioni disumane», dice l’attivista, confermando che in questo modo orrendo «è stata uccisa anche mia nonna paterna».
Le perdite tra i civili superano le 10mila persone, mentre per i feriti si parla di un numero tra le 8 e 10mila persone.
Il conflitto tra esercito regolare e paramilitari si sta ulteriormente allargando, le tregue non reggono e la regione del Darfur (con le città Murnei, Zalinghè e Kutum) è tra le più martoriate.
Il Darfur è stato diviso dal dittatore al Bashir in cinque regioni: El Geneina si trova nel West Darfur ed è abitata in prevalenza dall’etnia Massalit;
Murnei fa parte del West Darfur e di quello che era il sultanato Massalit, unitosi al Sudan nel 1919.
Mentre Zalinghè e Zutum sono nella regione del Darfur centrale, abitate in prevalenza dall’etnia Fur: ed è questa l’area più ricca di materie prime.
«Le RSF stanno compiendo atrocità nel silenzio generale, sia degli Occidentali sia dello stesso governo sudanese (cioè dell’esercito regolare comandato da Al Burhan)», denuncia Nor.
«Appare quindi sempre più urgente che l’occidente e i paesi africani intervengano per garantire la pace e la sopravvivenza delle persone che abitano la regione del Darfur perché l’esercito ignora completamente il suo dovere di proteggere i civili».
Nor fa sapere che «come comunità sudanese a Roma e esponenti della diaspora sudanese» hanno convocato un presidio per sabato 8 luglio dalle 14 alle 16 in piazza Santi Apostoli a Roma.
«Chiediamo tre cose», dicono:
«Una missione di peacekeeping per assicurare la sopravvivenza della popolazione civile in Darfur e permettere il rientro dei rifugiati dal Ciad;
l’attivazione di aiuti umanitari in Ciad per soccorrere i rifugiati sudanesi e la fine del conflitto interno e transizione verso un governo civile, senza forze militari al potere».