«Continueremo a fare quello che abbiamo fatto in Via Cupa, al Verano, a piazzale Spadolini, e che oggi facciamo a piazzale Maslax.

Abbiamo centocinquanta “negri a cui dare fuoco”, al campo, ma per scaldarli mentre le temperature vanno a picco.

Abbiamo tre pasti da servire ogni giorno, tende e sacchi a pelo da procurare, malati e vittime di tortura da far visitare, pratiche di assistenza legale da mandare avanti, curriculum da scrivere per la ricerca di lavoro, attività sociali e sportive da mettere in piedi. Lo facciamo ogni giorno, con la grande partecipazione delle migliaia di cittadini di questa città che, da più di due anni, continuano a sostenerci per mantenere vivo un piccolo spazio di umanità che nessuna minaccia ci dissuaderà dal continuare a presidiare, in attesa che le istituzioni si decidano a fare il loro mestiere».

E’ l’ultimo messaggio pubblicato in un post su facebook dai volontari di ‘Baobab Experience’, a Roma. Appena ‘visitati’ da orde di barbari di estrema destra.

«A pochi giorni dalle svastiche ricamate con la bomboletta spray da sedicenti epigoni di Ludwig, siamo costretti a sorbirci il peggio del campionario fascio-razzista. – scrivono ancora ivolontari del Baobab – Insulti razzisti, sessismo d’accatto (“puttana sei una puttana” ripetevano a una volontaria), riprese col telefonino delle auto e dei presenti in quel momento, intimidazioni e minacce. E’ sempre quello, purtroppo lo conosciamo bene». 

Siamo appena a febbraio eppure il flusso di migranti approdati nella capitale è ripreso: piazzale Maslax, alla stazione Tiburtina è di nuovo un accampamento di tende e di persone in attesa di una sistemazione migliore.

Una grande veranda bianca allestita dal Baobab ospita la mensa: i volontari fanno i turni per cucinare tre volte al giorno e assistere in ogni modo oltre cento persone, appena arrivate da Eritrea, Mali, Sudan, Etiopia. Che accendono dei fuochi la notte per scaldarsi e si ritrovano in capannelli per raccontarsi le loro storie.

A questi volontari che non mollano mai la presa, è stata prospettata mille volte, e da anni, un’ alternativa sulla ‘carta’ alla vita in strada per i rifugiati e i richiedenti asilo. Ma questa alternativa non c’è mai stata.

E adesso i volontari hanno capito che le istituzioni non si faranno mai carico della responsabilità di dare un tetto vero a chi approda da noi, dopo anni di lunghi viaggi e di morte scampata per deserto e per mare.

GLI ESORDI: VIA CUPA

La storia del Baobab così come lo conosciamo, inizia il 6 dicembre del 2015 quando termina l’esperienza del Centro di prima accoglienza per migranti, provenienti per lo più dal Corno d’Africa, sorto nei locali di una ex vetreria industriale in via Cupa 5. Che chiude i battenti dopo anni di attività. Si chiamava Baobab.

Si conclude così un progetto pilota importante, profondamente innovativo, che aveva introdotto elementi di autogestione e co-partecipazione al meccanismo dell’accoglienza. La solidarietà tuttavia non si ferma: con gli “Amici del Baobab” e poi con “Baobab Experience”, prende il via, anzi, un’epoca di volontariato diffuso, accoglienza in strada e impegno solidale, che cambierà per sempre l’approccio della città ai migranti.

Siamo alla fine del 2015 e Roma è ancora senza sindaco. Il Commissario straordinario Francesco Paolo Tronca decreta lo sgombero dalla struttura per motivi amministrativi, in seguito ad una esecuzione di sfratto: l’ente privato che li aveva affittati rivuole indietro i suoi locali. E per salvare il Baobab non c’è nulla da fare: una delegazione di volontari verrà ricevuta diverse volte in Campidoglio, ma soluzioni alternative non se ne trovano.

Nei mesi della primavera, e poi per tutto il periodo estivo, i volontari, coordinati da Andrea Costa, accolgono i ragazzi in strada. Piantano tende e gazebo in via Cupa e così la stradina angusta e stretta che guarda il cimitero viene occupata. Ironia della sorte, l’area attorno al Verano riprende a vivere.

«È stato uno straordinario ritorno all’umanesimo – dice oggi Andrea Costa –, tutto è nato dall’incontro di persone diverse per cultura, esperienze, età e strati sociali.

È stato un andare con molta naturalezza incontro a uomini e donne particolarmente provati dai lunghi viaggi e da esperienze traumatizzanti, considerati per anni come merce, prima dai trafficanti di esseri umani e poi dai governi.

Si è provato a sconfiggere i pregiudizi, ma anche una certa idea di solidarietà pietistica. Non c’era nessuna filosofia o ideologia dietro il Baobab: tutto è venuto fuori in maniera spontanea».

L’ESTATE CHE PASSERA’ ALLA STORIA
A via Cupa la mensa in strada funzionava a pieno ritmo, anche grazie alle tante donazioni di cibo e piatti preparati in casa o donati da negozianti e ristoratori. La distribuzione degli abiti si era incrementata, la disponibilità della gente a donare (tempo, sorrisi, parole) veniva naturalmente. La solidarietà dei romani in quei giorni ha dato il meglio di sé. Due volte alla settimana c’erano i medici e gli operatori di MEDU – Medici per i diritti umani – con il camper allestito per la clinica mobile, pronti a visitare i migranti.

Roma ricorderà a lungo via Cupa occupata: è stato uno stato di grazia eccezionale, come quelli che la Storia concede di rado. La ricorderanno i volontari, ma la ricorderanno pure i bambini. Che ogni tanto comparivano per regalare ai coetanei dell’Eritrea o del Ghana il loro peluche preferito. La ricorderanno gli anziani, che come negli anni del dopoguerra, erano tornati in strada ad ascoltare o raccontare storie. L’estate del 2016 la ricorderanno le coppiette e i liceali, che passavano verso sera a portare cibo, abiti usati o solo a curiosare. E la ricorderanno pure le suore di padre Konrad, l’elemosiniere del papa, che arrivavano al tramonto con sacchi a pelo e panini.

L’atmosfera era lieve. Di quella lievità simile ad uno stato sospeso da vivere intensamente. I migranti, finalmente al sicuro, trascorrevano il loro tempo seduti sulle panche o a giocare a palla, a chiacchierare in gruppetti. Ad aspettare la visita medica o in contemplazione del cielo stellato. Non erano mai soli. Si confidavano cose quotidiane e aspettavano pazienti il loro turno per un piatto di pomodori e ceci. Facevano la fila per una maglietta usata e un paio di jeans. Per un antidolorifico. La precedenza era data sempre alle donne, che iniziavano ad essere numerose, anche quelle incinte.

A via Cupa, quindi, tra giugno e settembre del 2016, succede qualcosa di inaspettato: i ragazzi eritrei, sudanesi, ghanesi, nigeriani, approdati lì dopo mille peripezie e diretti altrove (col sogno di raggiungere l’Inghilterra o la Germania) donano alla città di Roma una chance di rinascita. I romani la colgono in pieno e così facendo riscoprono il senso perduto della comunità.

RUSPE E NETTEZZA URBANA: IL ‘DECORO’ DI ROMA

Il 30 settembre, però, annunciate e precedute da vari tentativi di sgombero, arrivano le ruspe. In seguito ad una mozione del Consiglio Municipale, votata da destra e da sinistra, il secondo Municipio decreta il definitivo smantellamento della tendopoli di via Cupa. Gli operatori della nettezza urbana e della polizia smontano l’accampamento “abusivo”. Le pattuglie caricano i ragazzi su una camionetta e li portano in via Patini per i controlli. Da quel giorno in poi l’accoglienza a via Cupa termina, ma non finisce di certo il Baobab. Anzi. Da lì in poi l’esperienza – “Baobab Experience” – si rafforza, dimostrando d’essere una modalità umana di incontro replicabile e molto tenace.

I migranti verranno accolti prima a piazzale del Verano, poi alla stazione Tiburtina.

Prima nell’area di sosta dei bus e infine a piazzale Spadolini, lato Est, adiacente al parcheggio, dove i ragazzi africani avevano ricominciato a sostare. Durante il giorno vengono accolti e sfamati, ma per la notte non c’è alcuna possibilità di piantare tende. Perfino i luoghi più defilati e meno esposti della Tiburtina non convincono le istituzioni che non tollerano accampamenti di nessun genere. Le cronache tra ottobre e novembre 2016 sono piene di titoli allarmanti: è un gioco al rimpiattino tra forze dell’ordine e attivisti.

Poiché ogni tentativo di montare tende si risolve in uno sgombero, i volontari ricercano soluzioni inedite ed aree sempre più defilate. A metà novembre sembra che Baobab e Medu abbiano individuato una zona idonea dove innalzare una temporanea tendopoli: «si tratta di un parcheggio isolato, lontano da altri edifici, abitazioni o attività commerciali. Non intralciamo nessuno.

Non c’è ragione per intervenire per motivi di ordine pubblico», spiega il coordinatore generale di Medu per Roma, Alberto Barbieri. E invece anche qui arriva la polizia: le venti tende rosse, decorose ed ordinate, nel parcheggio più defilato della stazione, verranno smontate nel giro di poche ore.

«Il tema vero che ci vede in questo caso contrapposti alle istituzioni tutte – ci spiega Andrea Costa – è che non si è voluta individuare un’area vicino alla stazione dove poter attrezzare un campo decente, con dei bagni, con delle tensostrutture; un presidio vero, qualcosa che seguisse standard di vivibilità accettabili. Non riusciamo davvero a capire perché. Era un progetto fatto insieme a Medu e Medici senza frontiere».

Si tratterebbe di una scelta complementare all’accoglienza nei presidi. Per un certo periodo sembra che l’Assessorato alle Politiche Sociali accolga l’idea di rimettere in sesto l’ex istituto ittiogenico, abbandonato da anni. Ma anche questa ipotesi decade. (segue clicca qui)

*Le foto sono tratte dal profilo facebook di Baobab Experience.

* Questo articolo è pubblicato come capitolo, ‘Effetto Baobab’ nella XIII edizione dell’Osservatorio Romano sulle Migrazioni, edito da IDOS e  e l’Istituto di Studi politici San Pio V.