(seconda parte articolo pubblicato dal XII Osservatorio Romano sulle Migrazioni 2017)

Prima parte

NIENTE TENDE IN STRADA

Probabilmente ad infastidire le istituzioni è il rischio “visibilità” dei migranti: gli accampamenti, per quanto ordinati e ben tenuti, sono definiti “indecorosi” perché si vedono “troppo”.

«C’è anche un’altra paura – dice ancora Andrea Costa – mi viene l’idea che ci sia un pregiudizio: il timore che gli accampamenti spontanei possono incoraggiare ulteriori arrivi». I movimenti dell’estrema destra romana cavalcano questa ed altre paure immotivate. Sta di fatto che il tentativo di ricreare una nuova via Cupa alla Tiburtina non funziona. I giornali seguono passo dopo passo la via crucis dell’ex Baobab.

Dal settimanale “Left”: “È il quarto sgombero in poco più di un mese. Oggi, 7 novembre, come annunciato dai volontari, le tende in cui trovavano rifugio più di cento migranti transitanti sono state tolte con la forza”.

L’inverno si avvicina e iniziano le piogge: dormire su un materassino o in terra, senza riparo, si fa sempre più duro in piazzale Spadolini. Ci si mette anche il terremoto: ma i ragazzi accampati alla Tiburtina quello neanche lo sentono. Sentono però l’umido, l’acqua che penetra nelle ossa e che affatica i bronchi. Al camper di Medu che continua il suo servizio nel piazzale Spadolini, vanno a farsi visitare quando possono, anche perché dormire all’addiaccio fa male alla salute. Il clima è rigido, il cielo è grigio.

Siamo a meno di un mese da Natale. In tutto questo tempo, dallo sfratto di via Cupa in poi, il tavolo negoziale tra associazioni e Comune di Roma non si è mai interrotto. Oggetto dei colloqui: il futuro dell’accoglienza. È un’infinita serie di proposte, mediazioni, richieste e promesse, alle quali fanno seguito pochi fatti. Finalmente alla fine di novembre un primo spiraglio: si assegna ai migranti in transito un presidio umanitario temporaneo, dove poter passare la notte in un letto vero. È il centro di via del Frantoio, sostenuto da Roma Capitale e gestito dalla Croce Rossa Italiana, coordinato da Giorgio De Acutis.

Le associazioni non esultano: prevale la cautela. Si resta a guardare, con un ampio margine di scetticismo. Si tratta di «una soluzione emergenziale – scrive subito Medu – che è maturata solo dopo mesi di appelli e sollecitazioni». Di fatto, «abbiamo troppe volte assistito ad interventi emergenziali “spot”».

Appare subito chiaro che quel presidio, un edificio prefabbricato con una decina di camerate e bagni in comune, per un totale di 85 posti letto, è del tutto insufficiente a far fronte ai flussi in arrivo nella Capitale, soprattutto quelli che attenderanno Roma con la bella stagione.

 TRA FRANTOIO E STAZIONE TIBURTINA  
A febbraio 2017 gli ospiti saranno 85, di cui 10 donne e 2 bambini piccoli. Di questi, 42 di nazionalità eritrea, gli altri palestinesi, cittadini del Ghana, Gambia, Etiopia, ma anche tre senzatetto italiani. La Croce Rossa in via del Frantoio gestisce qualcosa che va oltre il fenomeno dei migranti in transito. E che oggettivamente richiede più risorse sia umane che economiche. Nel frattempo l’accoglienza di “Baobab Experience” e Medu a piazzale Spadolini non si arresta.

Anzi, sotto Natale le attività si intensificano. I volontari hanno un obiettivo ben chiaro: non lasciare soli i ragazzi. Arriva l’albero natalizio stilizzato: una rete di ferro addobbata di festoni dorati e palline rosse. Le signore portano il thè caldo il pomeriggio e i dolcetti per i più piccoli. Poi ci sarà un abete vero.

Si condividono piccoli doni, merende sui muretti e giochi di gruppo. Iniziano le visite guidate ai monumenti di Roma, alle aree archeologiche: «quando raggiungeranno le loro mete, ovunque saranno, questi ragazzi si ricorderanno anche la Roma bella, il Colosseo e i fori imperiali, non solo i piazzali grigi e cupi della stazione», dicono gli attivisti. E così è. Natale arriva. Non è una festa religiosa per tutti; ma per tutti sarà una tregua.

Come previsto il presidio del Frantoio non basta, però. Inoltre, spesso i ragazzi che sostano alla stazione Tiburtina durante il giorno vogliono restare assieme, e rimangono a dormire lì. Alcuni di loro almeno ci provano, nonostante il divieto. Ma la polizia arriva sempre puntuale. “Tiburtina, Polizia sgombera quindici migranti: È il solito copione” – si legge su “Roma Today” del 6 febbraio 2017 – “Modi aggressivi: i migranti in fuga da guerre e dittature trattati come pericolosi clandestini”, ribattono gli attivisti.

«L’Ama ha portato via quanto non siamo riusciti a salvare: donazioni, effetti personali, pezzi di storia e di radici. Questa continua ad essere l’unica strategia, a livello locale, nazionale ed europeo, indipendentemente dal colore politico», scrivono i volontari di Baobab .

L’assessore alle politiche sociali, Laura Baldassarre, ribadisce il rispetto delle regole: non c’è deroga al divieto di accampamento in città. «C’è stata una grandissima disinformazione su questo – ci ha detto a febbraio 2017 – non è corretto parlare di sgomberi: c’erano persone in strada, il nostro lavoro è quello di fornire loro un’accoglienza adeguata, non potevano rimanere lì». Senza tenda sulla testa per i molti migranti, però, la soluzione è ancora una volta il cielo aperto. O il cavalcavia.

Quello dell’accoglienza nelle tende è un modello che non rientra nei canoni: nessuna autorità è disposta ad immaginare o accettare, anche solo temporaneamente, quest’alternativa.

L’assessore, che pure sembrava sensibile al tema dei minori non accompagnati e delle migrazioni, afferma:

«non dobbiamo creare situazioni di illegalità come è lo stare in strada quando bisognerebbe essere altrove. Se non ci fosse alternativa come in passato, io lo capirei. Ma né io né nessun altro potremmo mai piantare tende in città: è contro il rispetto delle regole. L’invito che rivolgo a chi sta in contatto con i migranti è quello di dare loro la possibilità di venire accolti, perché i posti in questo momento ci sono».

LA “PROMESSA” DEL FERRHOTEL
Giorgio De Acutis a febbraio risponde che il Frantoio è in realtà tutto pieno: ha raggiunto la sua capienza massima e qualche volta si è spinto ad accogliere anche 95 persone.

E questo perché le procedure di relocation degli ospiti subiscono rallentamenti.

Che ne sarà dei nuovi arrivati? «Alcune sono persone escluse dal circuito formale dei richiedenti asilo, altri sono stati identificati negli hotspot ma devono formalizzare la domanda di asilo – spiega De Acutis –. Poi ci sono persone che hanno ottenuto l’asilo e hanno un problema di integrazione: non avendo un reddito e un posto dove andare si rifugiano qui».In questo lasso di tempo arriva la notizia più attesa: la Giunta capitolina, andando oltre il presidio del Frantoio, annuncia di voler mettere a disposizione dei migranti in transito il Ferrhotel. Si tratta di una vera e propria struttura di accoglienza la cui gestione sarà affidata ad un bando di gara. È un edificio da ristrutturare e riadattare nei pressi della stazione Tiburtina, ma l’assessore promette che entro luglio sarà pronto.

«Ci sono 500mila euro complessivamente, non solo per il Ferrhotel, ma per tutta l’accoglienza dei transitanti e si tratta di un contributo del Ministero dell’Interno», precisa la Baldassarre. L’auspicio è che davvero i fondi escano fuori e che si riesca nell’impresa impossibile.

Questa struttura dovrebbe contenere però un centinaio di posti e quindi da sola non risolve il problema. Gli attivisti dell’ex Baobab e di Medu sono scettici: «Ci è stato detto in più di un’occasione che ci sarebbe stato un posto per i ragazzi – dice Costa – ma siamo rimasti talmente scottati che prima di dire “ah che bello” e di ringraziare pubblicamente, vogliamo vederlo. Andiamo cauti con l’annunciarlo perché è dalla prima Giunta Marino che ci promettono un centro per i migranti in transito».

Le promesse stavolta non si fermano qui. La giunta Raggi pare avere per i transitanti un piano di lungo periodo ambizioso. La Baldassarre spiega: «abbiamo studiato modelli mutuati da altre città sia italiane che europee. Ci siamo confrontati in modo permanente con le associazioni che hanno lavorato su Roma e la nostra progettualità prevede per il futuro un modello d’accoglienza diffusa su tutto il territorio. Per tutti i migranti».

Nei programmi del sindaco pentastellato, dunque, c’è anzitutto «la creazione di un info point nei pressi della stazione Tiburtina, dove i migranti potranno ricevere informazioni e orientamento. Bisogna informarli esattamente dal punto di vista giuridico, circa i loro diritti: l’info point non può essere lasciato allo spontaneismo delle associazioni. Dobbiamo garantire una qualità dell’informazione legale ai migranti».

Sarà necessario, dice l’assessore, «lavorare in rete per creare un percorso virtuoso tra associazioni e istituzioni impegnate nello stesso ambito. Nel tentativo di valorizzare quanto già spontaneamente si è fatto a Roma con le Asl, le organizzazioni internazionali e le associazioni, ma anche col Municipio e i comitati cittadini della zona”.
Un futuro brillante, sulla carta. Non è chiaro però con quali fondi ed entro quanto tempo questo piano di accoglienza per i migranti sarà realizzato.

RITORNO IN VIA CUPA
Ma facciamo ancora un passo indietro: siamo di nuovo in via Cupa, è il 7 giugno del 2016. Alle sette del mattino una sorpresa annunciata: arrivano le forze dell’ordine. Molti ospiti dall’Eritrea, dall’Egitto, dal Sudan e dalla Somalia vengono portati via in fretta. «Controlli», dice la questura. «Pulizia. Decenza», dice l’Ama. Questione di «decoro», dice Tronca.

Che fine avrà fatto Alì? Occhi nerissimi e due baffetti appena accennati, come peluria adolescenziale, Alì ha 20 anni, viene dal martoriato Darfur. Peraltro ancora in guerra, anche se la chiamano “a bassa intensità”.

Era a Roma da appena tre settimane e dormiva in una delle tende da campeggio piantate a via Cupa. Aveva raccontato del suo viaggio fino a Messina durato sei/sette mesi, con prima tappa in Sud Sudan ed una lunga in Libia (tre mesi), dove aveva pagato 5mila dollari per la traversata sul barcone. Ci aveva detto che le tre sorelle e i due fratelli più piccoli erano rimasti a casa. Neanche una parola su cosa gli fosse successo in Libia.

Lo sguardo gli si rannuvola al solo pensiero, allora gli abbiamo chiesto un sogno. «Vorrei lavorare nella banca centrale del Sudan!», aveva risposto senza esitazione. Come se dicesse sulla luna. O a Hollywood. «Voglio andare in Inghilterra e studiare economia».

 

Gli amici di Alì erano in gran parte eritrei: capelli ricciuti come lana fitta, occhi a mandorla da cerbiatto e polsi esili. Chiedevano di continuo di poter usare “viber” sul cellulare. E i volontari a spiegare che da noi “viber” non si usa poi tanto. Alcuni ospiti di Save the Children sembravano davvero piccoli e in effetti viaggiavano a metà tra infanzia e adolescenza. Ma avevano già vissuto molte vite.

Viaggi lunghi mesi, carcere, deserto, trafficanti, mare, miseria, morte dei compagni. La loro resilienza è altissima. Mohammed (poco più che ventenne) aveva lasciato la moglie a casa. E non vedeva l’ora di riabbracciarla. «Ma non a Roma, però, a Londra!». Il suo amico Njanu, invece, una foresta di capelli voluminosi da rapper, palleggiava di continuo con una pallina da tennis. Quasi tutti scappavano dal regime di Isaias Afewerki, il presidente-padrone eritreo, per non fare il servizio militare.

Quei ragazzini sono stati non solo accolti ma amati dai romani: ognuno dei cittadini che ha transitato per via Cupa ha “adottato” uno di quei ragazzi e imparato qualche nome. Questo è il tesoro più grande lasciato in eredità dal Baobab: la vicinanza affettiva tra cittadini italiani e stranieri. Barriere che cadono perché non c’è più distanza tra “noi” e “loro”.

«Ci vuole un bel coraggio a dire che ci fosse un problema di relazione tra la gente del quartiere e via Cupa – racconta oggi Andrea Costa – persino con le tende in strada non c’era un clima ostile, neanche da parte degli abitanti della zona. Perché certa politica insegue questa narrazione qui? Via Cupa adesso davvero è una via morta. Ma in quei mesi d’estate c’era sempre qualche storia da ascoltare».

Baobab e con esso tutta l’esperienza di volontariato diffuso, tra associazionismo e contributo spontaneo dei singoli cittadini, lascia un’impronta indelebile. La città ha compiuto un salto di qualità e da adesso in poi indietro non si torna.