La casa- baracca di Vasili sta tra le canne e le fratte sopra il cavalcavia di Ponte Mammolo. Penultima fermata della metro B di Roma.

E’ fatta di legno, lamiere e stracci. Una gallina scorrazza nel tinello. Cola pioggia. Che diventa fango sul fango della camera da letto. Fango pure nel tinello. Pensili da bagno, armadietti, cucina a gas, due letti, uno specchio, il quadretto della madonna. E poi materassi, materassi e coperte. Tante. E’ una casa costruita per durare. Una vetrinetta senza vetri contiene vestiti.

«Ci fa freddo di notte. Piove in casa», dice Vasili che ci fa subito entrare, per nulla diffidente. La porta non c’è e questa non è una  casa.

Ma appesi a un chiodo due zainetti rosa da bambina. Con Vasili vivono una donna rumena e le sue due figlie. Un brivido ci attraversa al pensiero della notte al gelo. Vasili è incerto se provare più vergogna per il fango e il freddo che entra nelle ossa o orgoglio per una baracca che s’è costruito tutta da solo.

«Facevo il muratore, poi un anno e mezzo fa ho perso il lavoro. Non c’erano più i soldi per l’affitto».

Arrossisce un po’ quando gli diciamo che casa sua è ben fatta. Quest’uomo di 54 anni viene dalla Romania. Ha lasciato a casa la moglie e le due figlie già grandi ed è partito. Ci racconta che la sera vengono a trovarlo gli amici e si mangia insieme. La sua piccola storia di povertà è solo un’introduzione al viaggio dentro Roma est.

Che inizia da Ponte Mammolo – dove c’era la baraccopoli eritrea delle Messi d’oro (rasa al suolo a dicembre del 2015) – e prosegue lungo la Palmiro Togliatti.

Per finire sulla via Prenestina, nel quartiere Tor Sapienza. E poi ancora al Baobab di via Cupa, davanti al cimitero Verano. Adesso i ragazzi eritrei in transito, anzichè alle Messi d’Oro, finiscono in strada.

Ma la vogliamo ricordare quella baraccopoli che un giorno di maggio del 2015 è stata ‘smentellata’. Distrutta. Rasa al suolo. Perchè quella distruzione delle ruspe è stata come una violenza.

Era così che si presentava le Messi d’Oro a chi si avvicinava:

Una stradina centrale collega le tante porte sbilenche, ognuna col suo numero civico. C’è perfino un bar e dei bagni pubblici con allacci clandestini all’acqua. Le baracche sono cubetti di cemento con dentro materassi per dormire. Davanti alla numero 59 un paio di Nike. Due letti, uno scaldino, una sedia e una bombola a gas. Bussiamo e ci viene ad aprire Sharif, 37 anni, del Bangladesh.

«Sono arrivato venti giorni fa invitato dal mio amico etiope», racconta mostrandoci la baracca dove provvisoriamente vive e dove non manca la cucina a gas. Dietro una porta chiusa Mohammed dorme. Sharif si vergogna ad indicarci la buca dove ha buttato un materasso sporco. E’ un muratore disoccupato. Ha uno sguardo vispo che punta lontano. D’inverno i ragazzi vengono trasferiti altrove. Gli ultimi arrivati ancora resistono, vittime della disoccupazione e degli affitti impossibili. Yared compare da una delle baracche rosse. Ha gli occhi impastati di sonno. Quarantadue anni, etiope, vive in Italia da 20 e prima faceva il badante. Se potesse tornerebbe a casa sua, in Africa.

(le foto sono si Alex Zappalà)