La guerra civile yemenita dura ormai da più di 18 mesi ed ha già ucciso 10mila persone. Da qualche tempo alla barbarie delle armi s’è aggiunta la devastazione della carestia: 21 milioni di persone hanno urgente bisogno di assistenza sanitaria e muoiono letteralmente di fame.
Mentre il mondo rimane concentrato sulle presidenziali americane e sul conflitto in Siria e Iraq, e raccolto nel golfo di Aden.
Le foto di Saida Ahmad Baghili, la diciottenne yemenita ridotta pelle e ossa in un ospedale di Sanaa, sono state pubblicate dai giornali di tutto il Medio Oriente e di mezza Europa: dal Time a El Mundo al The Sun tutti parlano di lei.
Eccetto finora gli italiani. Saida Baghili giace in un lettino d’ospedale del porto di Hodaida: non riesce ad ingerire nulla e viene alimentata a succhi di frutta, latte e tè. E’ diventata il simbolo di uno Yemen stremato dove si muore come in Somalia negli anni Ottanta. Di fame e dissenteria.
Humano Sphere (notizie e analisi sulla lotta contro le diseguaglianze) titola: “Dove si trova ora Saida?”. «Un’infermiera dell’ospedale, Asma Al Bhaiji, non ha dubbi su quello che le è successo: “Il problema è la malnutrizione – dice – dovuta alla situazione finanziaria del Paese e alla guerra”».
E’ impressionante vedere questa ragazza adolescente scheletrica con i suoi abiti colorati, portata in spalla dai genitori, starsene rannicchiata da una parte in attesa della morte. O della rinascita. Ma secondo la ABC Saida è solo uno dei 14 milioni di yemeniti affamati.
Il numero comprende oltre metà della popolazione del Paese e molti temono una nuova emergenza umanitaria. «Tra fame, colera e attacchi aerei quotidiani, in Yemen un’intera generazione ha quasi del tutto perso i suoi anni migliori», scrive anche Morning news Usa. Come negli altri conflitti in corso, le prime vittime della guerra sono i più giovani: nessuno li risparmia dall’orrore.
Anzi, pare proprio che la distruzione si accanisca preferibilmente contro di loro. In Yemen ospedali, scuole, fabbriche e campi profughi sono sistematicamente bombardati. Oltre mille bambini sono rimasti uccisi nei raid e oltre 740 sono morti nei combattimenti.
Da più di un anno nessun obiettivo civile viene risparmiato. L’opinione pubblica internazionale non è disturbata più di tanto dalla presenza, dentro i confini di questo Paese, della formazione terroristica Aqap (sigla di Al Qaeda in the Arabian Peninsula). Pericolosa almeno quanto l’Isis.
Secondo The Long War Journal gli Stati Uniti (schierati col governo contro i ribelli sciiti houti) hanno effettuato oltre 30 bombardamenti aerei nel 2016 in Yemen, mentre nel 2014 e 2015 gli attacchi erano stati 23. Gli americani procurano danni “collaterali” coalizzati con i sauditi che tra le altre cose non si fanno scrupoli nel combattere l’Iran in terra yemenita.
Uno schieramento di forze a dir poco surreale. Gli Stati Uniti, comunque a parole almeno, hanno di recente dovuto prendere le distanze dai sauditi: «la cooperazione americana con Riad non è un assegno in bianco», ha dichiarato il portavoce americano Ned Price.
Look out News accenna ad una parziale inversione di rotta americana: «I continui bombardamenti sauditi su Sanaa impongono al Pentagono un cambio di strategia nella cooperazione militare con Riad. Ma è una tattica non priva di rischi».
«Il segretario alla Difesa Ashton Carter ha dato mandato ai suoi funzionari che coordinano le operazioni in Yemen di agire simultaneamente in tre direzioni: fare pressione sulle forze occidentali maggiormente coinvolte nel conflitto, vale a dire Francia e Regno Unito, affinché non garantiscano più un supporto incondizionato all’Arabia Saudita; imporre all’Oman di fermare i passaggi di armi iraniane per la regione del Dhofar indirizzati agli houthi, facendo così rientrare le tensioni tra Riad e Muscat all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo».
Ma soprattutto, allentare le forniture americane di armi e munizioni destinate all’esercito saudita.
«Ciò cui assistiamo in Yemen è un genocidio religioso e culturale», dice Catherine Shakdam, direttore dei Middle Eastern Studies ad RT.com.
Anche il francofono Jeune Afrique si occupa molto del tema Yemen e lo fa con una serie di articoli uno dei quali titola “Yemen: decine di morti nei raid aerei della coalizione araba a Sana”. Le altre analisi riguardano il ruolo quanto meno equivoco degli Stati Uniti e la vendita di armi dei sauditi.
Il Corriere della Sera ricorda che ufficialmente le cose precipitano tra il 25 e il 26 marzo 2015. «Da quella notte gli aerei dell’Arabia Saudita, sostenuti da una coalizione di altri otto Paesi arabi, bombardano senza sosta le postazioni dei ribelli sciiti houthi, arroccati nel Sud del Paese».
 
Ma tutto in realtà ha inizio nel 2011 quando il presidente Saleh cede il potere al vice-presidente Hadi, sostenuto da Usa ed Egitto.
Si tratta di un passaggio delle consegne non andato a buon fine. «Il conflitto affonda le sue radici nel fallimento della politica di transizione che avrebbe dovuto portare stabilità nello Yemen dopo una rivolta che ha costretto il regime autoritario del presidente Ali Abdullah Saleh a cedere il potere al suo vice nel 2011», scrive anche il sito della BBC.
Da quel momento in poi, complice il post Primavera araba fallita, i ribelli sciiti houthi approfitteranno della confusione politica per introdursi sempre più nella vita dello Stato e delle persone. Gli houthi avanzano nel Sud del Paese e una coalizione degli Stati del Golfo guidata dall’Arabia Saudita lancia dei raid contro i ribelli e impone un blocco navale.
Inoltre, all’interno di questa generale rivalità tra gruppi e desiderio di potere, si introduce l’Isis che nel 2015 compie il suo primo attacco in Yemen: due kamikaze colpiscono una moschea a Sana’a e muoiono 137 persone.
«Mentre tutti guardano alla Libia – scrive East online – c’è un rischio concreto della nascita di un califfato in Yemen, se Isis dovesse uscire sconfitto in Siria e in Iraq». Eventualità che oggi appare più verosimile che mai.
 (pubblicato su Popoli e Missione di dicembre 2016)