«Bisogna ammettere che le previsioni di George Orwell erano corrette: nel corso del Novecento si sono fatte rivoluzioni che non hanno semplicemente abbattuto dittature, ma ne hanno create di nuove. Quello che mi ferisce, guardando ai recenti sviluppi del Nicaragua, è proprio l’aver dimostrato quanto sia impossibile deporre un regime senza imporne un altro simile».

E’ Andrea Semplici, giornalista e analista, esperto di Africa e America Latina, molto legato al Nicaragua, a commentare la svolta repressiva e sanguinaria da parte del presidente Daniel Ortega, subita dal popolo nicaraguense.

Il sandinista ex guerrigliere, attualmente a capo del Fronte di liberazione nazionale, pare aver tradito completamente i principi di libertà e democrazia cui si ispirava la rivoluzione del 1979 contro l’allora despota Somosa.

La trasformazione dei principi egalitari nel loro opposto, è stata paradigmatica in Nicaragua.

«Fin da aprile di quest’anno – dice Semplici – il mese in cui è scoppiata la ribellione popolare, io ed altri osservatori abbiamo detto: “Guardate cosa sta accadendo: l’esperienza sandinista è stata sostanzialmente tradita da un clan familiare”». E non da poco tempo.

 «Per la mia generazione – spiega anche Dario Conato, direttore del Centro Studi di Politica Internazionale CESPI – quel Nicaragua rivoluzionario era stato vissuto come una dimensione epica. L’unica rivoluzione di successo in America Latina dopo Cuba. Il dittatore nel 1979 fu cacciato per effetto di una sollevazione popolare senza precedenti».

Eppure l’epilogo è stato drammatico. L’analogia con altri Paesi apparentemente distanti da questa piccola Repubblica dell’America Centrale, racchiusa tra l’Oceano Pacifico e il Mar dei Caraibi, è abbastanza immediata. Parliamo dell’Eritrea e più di recente, della Siria.

«La stessa cosa – ci spiega Andrea Semplici – avvenne in Eritrea: queste sono state due rivoluzioni (di matrice socialista, ndr) combattute in Paesi piccolissimi che riuscirono a vincere una situazione impossibile. Il Novecento ci aveva regalato le rivoluzioni di Nicaragua ed Eritrea e poi la caduta del muro di Berlino». Il nuovo millennio le ribalta.

Tant’è che anche l’Eritrea oggi vive una delle dittature più spietate al mondo.

«Vedere che tutto il lavoro fatto va a rotoli è una ferita insanabile» commenta Semplici. L’analogia con la Siria degli Assad calza dal punto di vista della manipolazione mediatica e della propaganda che tenta di plagiare l’idea stessa di rivoluzione.

Entrambi i regimi – di Ortega in Nicaragua e di Assad in Siria nel 2011 – hanno spacciato per complotto internazionale una genuina ribellione di popolo (nel caso siriano perlomeno ai suoi albori).

Ma come si è giunti a questo paradosso che ha trascinato il Nicaragua alla deriva, fino alla rivolta di aprile scorso?

Da tempo la gestione degli Ortega era diventata insostenibile per gran parte della popolazione povera e per la classe media ed intellettuale nicaraguense: una sorta di oligarchia famigliare di stampo liberista che molto aveva concesso al mercato e pochissimo al welfare, alla democrazia, alla lotta alla povertà. La goccia che fa traboccare il vaso è la riforma delle pensioni che toglieva quel poco concesso ai ceti medi e meno abbienti. Ma l’insoddisfazione cova ad ogni livello.

La scelta scellerata di costruire un mega canale sul modello panamense, con i soldi di finanziatori cinesi contro ogni piano di impatto ambientale, aveva sollevato le comunità indigene e gli ambientalisti.

«I contadini non volevano questo canale, l’incendio scoppiato in una riserva è il momento zero.

Quando Ortega impone la riforma del sistema pensionistico le università insorgono. Gli studenti prendono in mano la leadership», spiega Conato.

«Che fossero gli studenti a scendere in piazza a difesa dei pensionati, questo proprio non se lo aspettava il regime», conferma anche Andrea Semplici. Quella presidenza, al potere dal 2007, conteneva in sé i germi dell’insoddisfazione popolare e della ribellione pacifica.

«Quando Ortega prende il potere per la seconda volta, mette sua moglie Rosario Murillo a capo del dipartimento propaganda, trasformando il partito in un partito-Stato – spiega Conato – La grafica e i colori della campagna elettorale diverranno quelli del nuovo governo». La first lady Rosario Murillo è l’anima dell’attuale oligarchia e della propaganda di Stato.

E’ inoltre legata a gruppi spiritualisti ed esoterici e dirige il partito col pugno di ferro; di fatto è la Murillo a dettare l’agenda della repressione.

Così, mentre dal punto di vista della propaganda «sembra di essere nella Romania di Ceausescu – dice Conato – dal punto di vista pratico siamo nell’America del gangsterismo. Ortega stringe un patto con i principali operatori economici che avranno la strada spianata, dal business alle concessioni edilizie.

E’ il liberismo sfrenato, un modello che stava benissimo ai grandi imprenditori». Per il popolo e per la classe media non c’è speranza invece e in questo lasso di tempo si consuma la crescente insoddisfazione che preparerà la manifestazione di massa del 19 aprile scorso.

Da lì in poi è stato tutto un reprimere: barricate in strada, milizie paramilitari armate a bordo di camionette e ronde; morti nelle principali città, terrore. Fino al vergognoso attacco fisico alle alte gerarchie ecclesiastiche di luglio scorso.

Quando il cardinale Leopoldo Brenes, monsignor Josè Silvio Baez e monsignor Weldemar Stanislaw Somertag sfilano in processione, a sostegno di quanti avevano trovato rifugio in chiesa, vengono malmenati, irrisi e insultati.

La città di Masaya, a 30 chilometri a Sud di Managua, divenuta simbolo della resistenza al governo del presidente Ortega, il 17 luglio scorso viene assediata da oltre mille tra militari e agenti di polizia. Il 16 luglio il vescovo di Estelí, Abelardo Mata, si salva miracolosamente da un agguato armato attribuito a forze paramilitari. La repressione del governo sandinista è ormai apertamente diretta contro la Chiesa cattolica che resiste.

«Ascoltando l’invito di papa Francesco ad essere un ospedale da campo, molte delle nostre parrocchie hanno dato rifugio a quanti cercavano sicurezza e prestato soccorso ai feriti – spiega il cardinale Brenes – Questo sicuramente non è piaciuto al governo. Così come non è piaciuta la nostra sollecitudine nel tentare di smantellare la forza paramilitare».

Il grido di aiuto del cardinale tocca le coscienze: «Invito tutti a lanciare una catena di preghiera e a sostenere concretamente i nostri sacerdoti attraverso le intenzioni di Sante Messe. Molti dei ministri infatti, dovendo celebrare in privato, non ricevono offerte e dunque non hanno alcuna forma di sostentamento».

L’arcidiocesi di Managua dirama un comunicato molto duro parlando di «atto codardo condannabile ed esecrabile». Il cardinale Brenes scrive sui social: «Mai abbiamo visto in Nicaragua una situazione così, ed è veramente triste».

«La nostra missione è quella di essere presenti a Gesù Cristo. Eravamo andati nelle parrocchie per consolare i nostri sacerdoti ed accompagnarli nel cammino di sofferenza, tuttavia abbiamo ricevuto questo trattamento », aggiunge il cardinale.

Le proteste si fanno più massicce quando il presidente Ortega pronuncia un discorso col quale sostanzialmente rigetta la richiesta di elezioni anticipate e accusa i manifestanti di tentato colpo di Stato. Sia Amnesty International che Human Rights Watch divulgano report attraverso i quali condannano senza appello l’azione di Ortega e dei funzionari di regime.

Questa è una Chiesa molto vicina al popolo, semplice e molto poco disposta ad accettare violenza e soprusi: «Di Ortega si era detto che avesse stretto alleanza con la Chiesa cattolica – spiega ancora Andrea Semplici – tanto che il suo regime si dichiara cristiano e solidale. Ma la Chiesa attuale no, questa è differente! I vescovi sono pronti a rischiare la pelle in prima persona».