Dopo i primi attimi di shock e delusione per il voto che ha visto stravincere di nuovo il premier del Likud, Benjamin Netanyahu, ammiccante più che mai alla destra estrema, gli esperti e i giornalisti di Medio Oriente hanno rivisto le loro analisi. Quello di Netanyahu, che dichiara di non volere affatto la nascita di uno Stato palestinese, è un autogol, dicono. Cancella l’ipotesi della “soluzione negoziale dei due Stati per due popoli”, ma così facendo smuove finalmente le acque.

E forse disinnescherà lo stallo del processo di pace. Cancellata l’ipocrisia di 50 anni di promesse e finte partenze, scrive Gideon Levy su Middle East Eye, questa volta Israele non ha più alibi. Levy è tra i pochi intellettuali ebrei israeliani che chiamano l’occupazione militare col proprio nome. Scrive che: «la two State solution è clinicamente morta».

Questa ipotesi negoziale (mille volte sbandierata ma mai davvero perseguita) non funziona più, fa notare.

«E’ ora di pensare ad un’alternativa», scrive Levy.

«Qualcuno ha un’ idea diversa da quella che non sia la soluzione di un solo Stato (per due popoli e tre religioni ndr.) ? Qualcuno veramente crede che Israele sarà in grado di andare avanti con questo status quo, che non è mai stato un vero status quo, per altri 50 anni? Altri 50 anni di occupazione brutale, illegale e crudele senza avere alcuna sostenitore in nessun posto al mondo che possa riconoscere la sua legittimità? Altri 50 anni di insediamenti ebraici e di diseredamento palestinese?».

I giorni, le settimane e i mesi che verranno, ci sapranno dire se il nuovo governo sarà una catastrofe o, suo malgrado, darà avvio ad un’altra partenza. Dello stesso avviso è anche Harry Hagopian che in un editoriale sul sito di Al Jazeera titola: “cattive notizie per Israele o per la Palestina?”.

<<Considerato il fatto che gli Stati Uniti da soli non possono dare un gran contributo dice Hagopian – e che Israele continuerà semplicemente ad espandere le proprie colonie mentre tergiversa sulla soluzione dei due Stati, i palestinesi dovrebbero sostenere i propri diritti. Questo richiede passi coraggiosi più che condanne – anche se ciò significa abbandonare i loro “privilegi” – . L’Unione Europea deve prepararsi alla battaglia e agire in modo risoluto>>.

E conclude, sempre sul sito della tv panaraba Al Jazeera, tra i più attenti alla causa palestinese: <<mordete il freno e andate avanti, dico io, o altre condizioni continueranno ad inasprirsi, il radicalismo crescerà e la sofferenza condurrà ad un’altra conflagrazione>>.

Ben Haspit per il portale arabo Al Monitor, descrive la trappola in cui è andato a cacciarsi il rieletto premier, che pur di accaparrarsi i voti dell’elettorato della destra intransigente, ha rilasciato dichiarazioni pesanti che ora è impossibile rimangiarsi. Aver dichiarato di non volere uno Stato palestinese ha fatto inalberare di molto il Presidente Usa Barack Obama. <<Netanyahu sa che è arrivato il momento di restituire il debito. E lui, che odia pagare, semplicemente non sa dove prendere i soldi>>, scrive Haspit.

Moltissimi analisti, anche dalle colonne dei principali quotidiani americani dal New York Times al Washington Post, fanno notare che la linea di credito internazionale di Netanyahu è bloccata. Se molte volte in passato, il premier, nonostante la violazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite, ha potuto usare altre carte (la sicurezza dello Stato ebraico e la violenza di Hamas), consentendo ad Israele di ritirarsi dal negoziato per la pace, oggi non può più permetterselo. Non dopo aver spudoratamente negato la legittimità dell’esistenza di uno Stato palestinese.

<<Anche al livello personale è insolvente – scrive  Al Monitor – Dovrebbe completamente reinventare se stesso. E non è sicuro che sia in grado di farlo. Sta esaminando delle soluzioni di riconciliazione, anche parziali con la Casa Bianca>>, ma non ci riesce.

Nello stesso momento la lobby ebraica americana lo sostiene:  il Jerusalem Report scrive che <<figure di spicco della comunità pro-Israeliana a Washington, stanno facendo ripetuti appelli ad Obama affinchè la sua amministrazione abbassi i toni>>.

Il disappunto del Presidente americano e di tutto il suo staff è stato veramente molto evidente nei giorni successivi alla rielezione di Netanyahu. Il timore è che tutti gli sforzi e i passi compiuti in passato per avvicinare Israeliani e palestinesi, e cercare delle soluzioni condivise, vadano in fumo.

Infine l’intellettuale Ilan Pappe che scrive su Electronic Intifada, dice che <<il desiderio dei palestinesi è solo quello di vivere vite normali – qualcosa che il sionismo ha sempre negato ai palestinesi- E vite normali significa fine delle politiche di apartheid discriminatorie contro i palestinesi in Israele, e fine dell’occupazione militare e dell’assedio della Cisgiordania e di Gaza. Riconoscimento del diritto dei rifugiati palestinesi al ritorno>>. La comunità internazionale può giocare un ruolo positivo – argomenta Ilan Pappe che è ebreo israeliano – se fa suoi tre principi: <<anzitutto che il sionismo è ancora colonialismo e che schierarsi contro il sionismo non significa affatto essere antisemiti ma soltanto anticolonialisti>>.

Ancora su Al Jazeera, stavolta America, Tony Karon rimarca che il capo dello staff della Casa Bianca ha detto a chiare lettere che <<un’occupazione durata 50 anni deve finire>>. Mai si erano sentite parole tanto chiare, nette e senza possibilità di equivoco. La comunità internazionale pare aver iniziato finalmente a sdoganare la terminologia.