Qualcosa si muove a sostegno del regista iraniano Keywan Karimi: il 13 dicembre a Parigi, proiezione pubblica di writing on the city, il documentario sotto accusa per propaganda anti-governativa e insulto al sacro.

E’ l’ultimo film di Keywan prima che finisse in carcere, condannato dalla Corte islamica ad un anno di reclusione e 223 frustate. Su questa pena corporale il trentunenne non riusciva a darsi pace.

«Al carcere mi posso ache abituare – aveva detto – ma alle frustate no. Mi fanno paura»

In writing on the city osserva Teheran da un insolito punto di vista: i muri, che hanno ospitato graffiti e scritte dalla rivoluzione khomeinista in poi. La carrellata poetica arriva fino alla rielezione di Ahmadinejad nel 2009.  Si tratta di muri parlanti, che attraverso messaggi politici e civili, disegni e parole, raccontano la partecipazione popolare alla vita dell’Iran.

«Bisogna far rumore: Keywan deve uscire da lì!», ha detto a Le Monde François d’Artemare, il produttore francese del giovane cineasta.

Inizialmente era sembrato che anche il mondo del cinema si fosse disinteressato alle sorti del regista. Poi da Parigi è arrivata la risposta. Ma Teheran ancora tace.

«La condanna stavolta è caduta su di lui; ma questo è un messaggio rivolto a tutti gli artisti e gli intellettuali. E funziona. Nessuno in Iran si è mobilitato per Keywan, la mobilitazione non si può che fare da fuori», ha spiegato d’Artemare.

La vicenda ancora aperta rimanda ad altri graffiti, altre storie. Nel libro “Muri di Tunisi, segni di rivolta” pubblicato nel 2015, Luce Lacquaniti, ricercatrice e arabista italiana, raccoglie foto di scritte comparse nella capitale tunisina durante e dopo la rivoluzione. Quei muri raccoglievano il malcontento e la rabbia. Il sollievo e la critica. Oggi tacciono.

A distanza di qualche anno l’autrice ha spiegato che oggi tendono al bianco. La gente è scoraggiata o spaventata.

«Tutto il fermento che ho documentato nel libro sembra essersi in qualche modo concluso». Silenziare i muri equivale a reprimere la libertà d’espressione.

Cittadini che non usano quella sorta di foglio bianco gigante per esprimere liberamente il dissenso, sono cittadini annientati. E punire un film-maker perché documenta la storia attraverso la voce popolare è un segnale grave che andrebbe colto con più indignazione.

Anche in quella parte di mondo che sembra più garantita, solo apparentemente lontana da simili forme di censura e autocensura.

Le foto sono di Arxe2014 – Own work, CC BY-SA 4.0

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