L’ospedale di Nzara, in Sud Sudan, lo definiscono di frontiera. Non è facilissimo capire che cos’è la frontiera in un Paese paradossale come questo. Separato in fasce dal fratello gemello, il Sudan, e costruito a tavolino nel 2011 per la gioia di dirsi autonomo. Ma ancora incapace di reggersi sulle proprie gambe e soggetto ad una feroce e infruttuosa lotta per la spartizione del potere. Il Sud Sudan è uno Stato bambino la cui leadership frammentata è ghiotta di ogni cosa.

Un ospedale di frontiera in un Paese così è una specie di follia. E infatti solo i sognatori seriali e i visionari potevano realizzarlo. Nessuno ci avrebbe scommesso all’inizio. Nel giro di centinaia e centinaia di chilometri da queste parti non si vedono altro che savana, bush, strade non asfaltate, piccoli villaggi e nessuna copertura elettrica. Gli uomini armati delle diverse fazioni ribelli vengono qui a farsi curare, e poi fuggono nelle fratte della foresta.

Gestito dalle suore comboniane, al confine con l’Uganda, the Nzara mission hospital nasce nel 1983. Quando i malati erano soprattutto i lebbrosi. E le missionarie si spostavano  a bordo di una clinica mobile in giro per il Paese ancora indiviso, alla ricerca di pazienti poverissimi e senza mezzi per muoversi.

Suor Laura Gemignani

Nell’ospedale di Nzara, all’epoca, le missionarie non avevano a disposizione neanche l’acqua corrente. La raccoglievano nelle cisterne e la centellinavano. Serviva ai medici quando dovevano operare.

Oggi è un miracolo anche solo il fatto che Nzara sia ancora in piedi: «e non perché qui facciamo miracoli o abbiamo dei super-dottori», precisa subito suor Laura Gemignani, infermiera comboniana e amministratrice dell’ospedale. E neanche perché ci siano particolari mezzi, a dir la verità. Anzi.

Ma semplicemente perché «il personale, messo nella condizione di farlo, lavora bene ed è motivato». E lei sa come far funzionare la macchina.

Nzara hospital può accogliere circa 150 persone alla volta, ma nei momenti di emergenza si dilata fino a contenerne oltre 200, senza considerare i malati di tbc. «Quando i letti non bastano più, si aggiungono posti a terra».

L’unico vero ricovero, soprattutto per curare gli ammalti di Aids (che vengono a prendere le medicine e arrivano anche da Juba) è questo ospedale, che all’inizio curava lebbrosi e tubercolotici.

«Adesso i lebbrosi sono pochi anche perché il vaccino contro la tbc ha funzionato anche per la lebbra. Ma è uscito fuori l’Aids», spiega suor Laura.

E Nzara è purtroppo in pole position rispetto alla peste del XXI secolo. E anche solo questo dato avrebbe scoraggiato chiunque, ma non  suor Laura.

«Noi possiamo scegliere – dice – o guardiamo le macerie, oppure fermiamo lo sguardo sui fiori che crescono oggi in mezzo alle macerie. Ed è questo che vuole fare il nostro ospedale».

I padiglioni dell’ospedale di Nzara sono piccole strutture diffuse: ciò che rimane di preesistenti costruzioni coloniali britanniche , dove gli inglesi venivano a passare il loro tempo libero.

Ma c’è un’altra ragione di fondo per cui in realtà Nzara è già un miracolo: ed è la ‘vision’ di suor Laura. Che è infermiera ma anche amministratrice.

Mentre parla e scorriamo le foto, la comboniana ogni tanto immagina quello che potrebbe esser integrato, migliorato, rifatto, sistemato.

«Qui vorrei poter costruire una grande sala con finestre enormi – dice – dove mettere i bambini ammalati di polmonite. Lì vedi, potrebbe essere diviso in due… Questo ospedale è costruito col ferro e non c’è contro-soffitto, fa un caldo assoluto d’estate. Quando avrò i soldi rifaremo il tetto…».

E poi: «i letti li voglio così: semplici, perché è più facile tenerli puliti e non far accumulare la polvere. Qui invece vorrei costruire una mensa, così i medici e gli infermieri non devono tornare a casa per pranzo e non lasciano soli i pazienti».

E ancora: «I malati di tubercolosi stanno qui – e indica una foto – ma il padiglione deve essere distrutto e rifatto perché è tutto vecchio: ci sono i topi, i camaleonti ed entrano pure le scimmie e i serpenti!».

Nel Sud Sudan in guerra permanente da cinque anni, un ospedale è doppiamente importante: i danni sulla popolazione sono fisici, ma anche mentali, di relazione e umani.

Il 65% delle donne in questo Paese, dove a farla da padrone è la guerra etnica, è stato stuprato come «strumento di guerra».

Le donne che hanno subito violenza non vengono a farsi visitare in ospedale, ma le bambine sì.

I cambiamenti si vedranno solo in futuro: «Comboni era un uomo dalla visione lungimirante – ricorda Laura – noi suore siamo le pietre nascoste nelle fondamenta che tengono una struttura. I risultati di quello che facciamo saranno visibili solo un giorno».

Per ora l’ospedale di Nzara conta su una ventina di persone tra medici, paramedici, infermieri e trainer on job, diplomati che imparano il mestiere. 

«I medici sono due fissi: un dottore ugandese che è bravissimo e che ha lasciato la famiglia in Uganda per stare con noi, e un ragazzo del Galles che fa il volontario».

Il lavoro degli infermieri è perciò fondamentale: ma per formarsi devono raggiungere le scuole che distano migliaia di chilometri. Ecco perché nella ‘vision’ di suor Laura c’è anche la creazione di una scuola per infermieri, dentro o nei pressi dell’ospedale.

«Se i tirocinanti sono bravi oggi li mandiamo alla scuola per infermieri. Adesso ne abbiamo 15 ma ci vogliono tre voli interni per raggiungere la città. Noi vorremmo mettere su una nostra scuola, il primo reparto è pediatria abbiamo 70 letti».

Perché è così importante una scuola infermieri? «Per mille ragioni – risponde suor Laura – e non ultima, quella  di facilitare l’andare a scuola delle donne. E’ un modo indiretto ed efficace per aiutare la famiglia a rimanere unita: le ragazze che vanno a far la scuola infermiere devono lasciare i figli a casa per ora. Avere la scuola a portata di mano aiuta le mogli ad aumentare il livello di istruzione e a diminuire i costi di gestione dell’ospedale».

Scorriamo altre foto: «Questa è la storia di un bambino che era quasi morto: la mamma gli metteva la manina davanti la bocca per sentire se respirava – racconta – capito che era in fin di vita ha chiamato il marito. Il dottore ha avuto una intuizione: il bambino era anemico. Un nostro dottore che aveva lo stesso gruppo sanguigno ha fatto la trasfusione di sangue.

Quando è arrivato il papà, il bambino si era ripreso e stava seduto sul letto. Quel papà mi ha detto: “suora mi fa male il cuore”. Il bimbo aveva avuto la malaria e glie era venuta l’anemia». E’ una storia di ordinaria quotidianità qui a Nzara, questa : la differenza la fa lo sguardo di chi cura.

Ogni paziente qui non è un numero e neanche un paziente, per la verità. E’ un essere umano con storie di sofferenza e lotta alle spalle. E come tale viene vissuto, curato e amato.