La pilota ucraina Nadiya Sevchenko è tornata a casa, a Kiev, da eroina, dopo due anni di prigionia in Russia, nelle mani di Putin. La stampa di tutto il mondo l’ha celebrata e in patria vogliono candidarla alle prossime elezioni presidenziali.

Così per un po’ (ore, giorni, settimane forse) il destino dell’Ucraina orientale, dilaniata dal conflitto tra ribelli separatisti filorussi e nazionalisti incalliti, è tornato alla ribalta della cronaca. Per la verità in Italia pochissimo.

Questa guerra chiamata dagli esperti “a bassa intensità” o “ibrida”, esiste ancora. Dura da due anni e nel corso del tempo appare trasformata. Come tutti i conflitti irrisolti e incompresi si è anzi incancrenita.

Oggi, nonostante gli accordi di Minsk II (sostanzialmente falliti) e il cessate il fuoco, la vita nell’autoproclamata Repubblica Popolare di Donetsk (ad est, confine russo) è poco meno che infernale.

 

Prendiamo i bambini ad esempio: dice l’Unicef che il conflitto ha seriamente compromesso la vita di oltre 580mila piccoli nella zona non controllata dal governo legittimo di Kiev.

Di questi, 200mila minori avrebbero bisogno di sostegno psicologico. Al confine si vive dilaniati e sempre all’erta: oltre alle mine ci sono le bombe che ogni tanto esplodono. L’odio delle milizie ribelli (del neo-nazista governatore di Donetsk) verso il governo di Poroshenko si è intensificato. Le due fazioni si combattono direttamente e indirettamente.

Scrive Jacopo Custodi per East Journal che nell’Ucraina orientale «siamo davanti ad un ‘Califfato dell’Est’ in lotta per la difesa dei valori e della tradizioni russe e ortodosse, da preservare davanti alla presunta degenerazione morale dell’Europa, vista come sempre più laica e multiculturale. Non a caso la Chiesa cristiano-ortodossa è religione di Stato e sugli edifici pubblici di Donetsk sventolano bandiere con l’effige di Gesù Cristo, spesso accompagnate da una simbologia patriottica molto simile a quella di stampo sovietico».

I territori separatisti sono ridotti ad un cumulo di macerie: la gente come Vera Fyodorovna, 76 anni e  suo marito, vive praticamente in strada, perché non ha più casa nel villaggio di Vuhlehirsk.

La mano russa che ha sobillato e armato il conflitto e l’ha reso feroce stimolando la ribellione, sembra meno visibile di prima. Ma dietro le quinte muove i fili e le armi.

Ukraine Today scrive che dall’inizio di aprile di quest’anno la Russia ha trasferito oltre 800 milioni di rubli (11,8 milioni di dollari) del suo budget a sostegno delle forze separatiste. E lo scorso anno l’Atlantic Council aveva pubblicato un report molto dettagliato (Hiding in Plain Site) su come il Kremlino opera in Ucraina.

Leggendo queste storie e questi numeri mi ritorna in mente l’incontro che ho avuto quasi due anni fa alla Focsiv di Roma con Lyudmyla Kozlovska che oggi ha 31 anni.

E’ la presidente di Open Dialog Foundation, una onlus dei diritti umani che ha sede a Varsavia e a Kiev. Denuncia abusi ed uccisioni di ucraini ad opera di separatisti ed esercito russo.

Quell’incontro ristretto (eravamo tre giornalisti e tre attiviste ucraine) a luglio 2014 per me era stato illuminante.

Lyudmyla, Natalia Panchenko ed Elena Rybak (moglie di un amministratore comunale ucraino barbaramente ucciso dai filo-russi ad aprile 2014) in quell’occasione raccontarono cosa stava succedendo nel loro Paese, schiacciato dall’esercito russo. E come tutto era stato sapientemente orchestrato nel corso dei due anni precedenti, in una escalation di violenza sfociata nella guerra.

Ci raccontarono dei sequestri di persona, delle infiltrazioni di militari russi nella società civile dell’Ucraina orientale. Dei “terroristi” ucraini filorussi e dell’impotenza della gente comune. Quei racconti suonarono nuovi alle mie orecchie e niente affatto scontati.

Il giorno successivo, il 17 luglio, un boeing MH17 della Malaysia Airlines precipitava nella zona di Donetsk, nell’Ucraina orientale, a 40 km dal confine con la Russia.

Poi scoppiò l’estate e ad agosto inoltrato fu abbastanza chiaro a tutta Europa cosa stava realmente succedendo nella patria di Poroshenko.

«Questa non è una guerra civile e non è neanche una lotta tra separatisti filo-russi e nazionalisti ucraini. Questa è una guerra di annessione militare da parte della federazione russa», ci disse Lyudmyla Kozlovska, in quell’incontro romano.

 

Oggi, al di là della diplomazia, delle sanzioni e dei giochi geo-politici, le violazioni proseguono.

«Ogni famiglia è toccata da questa tragedia. Ma la nostra memoria opera in maniera selettiva e in modo tale che ricordiamo solo le offese più ciniche – ancora Lyudmyla, che ho contattato via mail a distanza di un anno – E’ in corso una guerra vera e sfortunatamente non si tratta di pochi casi isolati: contiamo migliaia di casi di uccisioni e rapimenti in Ucraina».

In quell’incontro a Roma c’era anche la moglie di un uomo politico locale, ucciso dai russi:

«Mi aveva detto: se mi succede qualcosa non denunciare la mia scomparsa perché la polizia è dalla parte dei separatisti. Un’ora dopo il sequestro a casa mia si presentò la polizia che mi chiese di seguirla: ma io su quella macchina avevo notato un nastro con i colori dei separatisti. Non li ho voluti seguire e forse solo per questo mi sono salvata», ci raccontò Elena Rybak.

In Ucraina orientale i filo-russi non sono mai stati un movimento spontaneo, denunciava la Rybak. Il corpo di Volodymir Rybak venne ritrovato in un fiume il 22 aprile 2014.

«Sulla parte destra del cranio di mio marito è stato trovato un foro: era stato colpito con il calcio della pistola sulla nuca e aveva un enorme ematoma sul naso, non aveva più denti e c’erano segni di bruciature su tutto il corpo», Elena ci raccontò con voce rotta dal pianto gli atroci dettagli di come suo marito (ex membro del Consiglio comunale di Horlivka) fosse stato rapito, torturato e ucciso. E di come i separatisti fossero sobillati e manipolati dai militari penetrati nella regione di Donetsk.

«Il caso eclatante di Volodymyr Rybak è stato solo l’inizio di quelle azioni di terrore da parte di Putin nell’est del Paese. Ora pochi ricordano la sua morte, così come il rapimento della donna pilota, Nadezda Savcenko, e i morti di Odessa o la fine di giornalisti come Vyacheslav Veremiy», spiegava Lyudmyla sempre in quell’occasione ormai lontana.

Oggi che la pilota Nadiya è stata liberata, il terrore non è finito: Open Dialog continua a denunciare scomparse e rapimenti in Ucraina. «Noi riportiamo minuziosamente tutti i crimini commessi dai soldati russi e dai terroristi nell’est del Paese e in Crimea», ci spiega oggi Lyudmyla.

Open Dialog Foundation è nata in Polonia nel 2009, su sua iniziativa e trae ispirazione dalla Rivoluzione Arancione, del 2004 in Ucraina, e coinvolge organizzazioni di studenti ucraini e movimenti di cittadini e società civile locale. Open Dialog sostiene la democratizzazione in tutta l’area dell’ex Unione Sovietica, monitorando, attraverso i suoi dettagliai report, i progressi fatti nel campo dei diritti umani.

Dal sito scarico uno dei dossier: Open Dialog 

E’ datato aprile 2016 ed è stato presentato all’Europarlamento. Dice che sono 28 gli ostaggi ucraini, rapiti al di fuori del Diritto internazionale o arbitrariamente detenuti in Russia.

Nadyia Savcenko non era che uno degli ostaggi, sebbene il più noto. Nelle mani russe ci sono ancora persone come Bohdan Yarychevskyi, 26 anni, laureato nell’università Nazionale di Lviv, ed uno dei partecipanti alle rivolte di piazza di Euromaidan. Con Bohdan rimane detenuto anche Yuriy Yatsenko, suo collega di studi e rivoluzionario di Euromaidan.

(La foto è tratta dal sito di Human Rights Watch  http://xoxol.org/putin/human-rights-watch-06-may-2014.html).