Ormai sono una coppia collaudata Francia e Germania, in Africa. Lo nota Jeune Afrique, in occasione della visita congiunta dei due titolari agli Esteri – il ministro Jean-Marc Ayrault e il suo omologo tedesco Franck-Walter Steinmeier – alla diplomazia maliana. Si tratta di un viaggio che fa seguito (sempre in formazione doppia) a quello in Libia dell’aprile scorso. Secondo il settimanale dell’Africa francofona, questa presenza «sancisce l’impegno dei due Paesi nella lotta contro il terrorismo e per l’attuazione dell’accordo di pace di Algeri, firmato nel giugno 2015».

 

Una guerra, quella di Bamako, a lungo segnata dalle ribellioni dei tuareg e dalla presenza di gruppi terroristici legati ad Al Qaeda. Jeune Afrique dice anche che i due ministri europei ormai sono degli habitué delle diplomazie africane in tandem. Il che significa che il nuovo inquilino del Quai d’Orsay (subentrato a Laurent Fabius) «vuole una politica più europea (in senso franco-tedesco, ndr) e meno franco-africana in Africa».

Tutto ciò in linea con le istituzioni di Bruxelles, sempre più dipendenti dagli egoismi nazionali dei due Paesi leader che negoziano con i governi in barba alla diplomazia comunitaria. Lo fanno anche con la Libia: stavolta Francia e Italia. A riferirlo è la stampa libica, in particolare Lybia Today.

Il vicepresidente Ahmed Maetig propone per primo all’Italia un accordo simile a quello stipulato dall’Ue con la Turchia. Idea peraltro subito accolta con entusiasmo dal ministro Angelino Alfano, ormai sganciato come il premier Matteo Renzi da qualsiasi logica multilaterale.

Del doppio viaggio franco-tedesco parla anche l’Agence d’Information d’Afrique Centrale (Adiac Congo): la visita in Mali, nel Niger e prima ancora in Libia, dei due ministri è «l’occasione propizia per l’Unione europea di rafforzare le ambizioni comuni in Sahel, tanto più che i Paesi europei si confrontano col terrorismo e con un flusso massiccio di migranti». Il quotidiano La Croix è più lapidario: «In altre parole Parigi apre le porte del suo antico impero coloniale a Berlino, e dal canto suo Berlino invita Parigi nella sua zona d’influenza. Come è avvenuto in Ucraina, dove Steinmeier e Ayrault hanno compiuto un altro viaggio insieme».

Se manca del tutto una politica estera europea, nel senso di Unione (come l’avevano immaginata i padri fondatori), c’è però una crescente politica estera fatta dagli ex colonizzatori. Mali Web titola: “Balletto diplomatico per accelerare il processo di pace”. In questo momento delicato in cui l’Europa teme come la peste un’altra ondata di rifugiati dall’Africa (a quanto pare secondo Parigi più evitabile di quella siriana), premere sull’acceleratore del processo di pace in Mali è una priorità. Peccato che la Francia in Mali nel 2013 sia andata non ad agevolare la pace ma a portare sostegno militare al governo contro i ribelli dell’Asawad.

Il Guardian nel 2015 notava: «La decisione della Francia di intervenire dal Nord del Mali è sembrata all’epoca un esempio raro e riuscito di quel rischioso genere di operazione di terra che, negli anni della presidenza di Barack Obama, è stato evitato. Ma l’attacco jihadista all’Hotel Radisson blu di Bamako dimostra che gli scontri non sono cessati».

La stampa africana non parla invece moltissimo delle politiche europee sull’immigrazione e delle ultime misure che passano la patata bollente dei profughi alla Turchia. Ma, laddove lo fa, è molto meno critica nei confronti di Ankara, di quanto non lo siano i media europei. La politica d’accoglienza turca è vista anzi con benevolenza e ammirazione. Un quotidiano on line come il Ghana Web vede l’accordo sui profughi come qualcosa che può proteggere masse di persone dall’affrontare viaggi rischiosi e fallimentari in mare. «Elogiato dalla Merkel e dai leader europei ma considerato disumano dai suoi detrattori, l’accordo mira a scoraggiare la tratta di esseri umani – scrive il giornale africano – interrompendo la principale rotta migratoria dal Medio Oriente all’Europa».

 

Il The Nation di Nairobi regala su questo tema un editoriale molto accurato dal titolo “Porre fine al conflitto in Medio Oriente per tamponare il flusso di rifugiati in Europa”. In questo pezzo Rasna Warah parla con ammirazione delle politiche di accoglienza dei migranti in Turchia. Il campo profughi di Nizip, al confine tra Siria e Turchia, dice Warah, è uno degli esempi migliori di come dovrebbe essere gestito un campo profughi. Possiede tutte le attrezzature e le infrastrutture necessarie per vivere una vita degna, seppur precaria, scrive. In realtà non è l’unico giornale della stampa estera ad evidenziare l’ottima capacità turca di accoglienza.

 

Lo fanno il Telegraph, tra gli europei, ma anche l’Huffington Post e la Cnn. Soprattutto però lo fa Al Jazeera sul sito del suo quotidiano. Con le parole di Seth Frantzman: «L’Ue può imparare dall’esperienza dei rifugiati in Turchia». Si chiede come mai la crisi siriana sia così difficile da gestire per un’Europa che avrebbe tutte le carte in regola per farlo, e invece è così ben affrontata dalla Turchia, con i suoi refugees camp da manuale.

Tra i media arabi è ancora più sferzante Il Middle East Eye che accusa l’Europa di perpetrare gli stereotipi dell’Orientalismo teorizzato da Edward Sayd. «Presentare gli arabi come una minaccia per gli europei – dice Mat Nashed – non fa che rafforzare la forma più diffusa di patriarcato universale». E prosegue: «Forse l’Unione europea non è poi così diversa dagli elementi più xenofobi. Questo spiega perché Frontex (l’agenzia di controllo delle frontiere dell’Ue, ndr) continua a dissuadere migliaia di rifugiati dal chiedere l’asilo politico».

 

Quale che sia la ragione del gran rifiuto, l’establishment dell’Unione sembra «non riconoscere i rifugiati come persone che hanno il diritto fondamentale di domandare asilo. Li vede piuttosto come minaccia alla sua sovranità». E conclude: «Per riprendere le parole di Edward Said, l’Europa non affronta uno shock delle culture, essa affronta uno shock delle ignoranze».