La baraccopoli delle Messi d’Oro è una cittadella autogestita di rifugiati eritrei ai margini della capitale.
Nasce a pochi passi da quello che un tempo fu un edificio del Cnr di Roma est, dove si faceva ricerca scientifica. L’impressione è d’entrare in un campo fatto di niente. Ma con un’imbarazzante organizzazione interna.
Un sentiero centrale collega le tante porte sbilenche, ognuna col suo numero civico.
Le baracche – una cinquantina di cubetti di cemento con dentro materassi per dormire e qualche cucinino – sono condivise da due o tre persone. Messi d’Oro è autorganizzata come un campo da lavoro. C’è un bar e i bagni pubblici con l’allaccio abusivo all’acqua. Davanti alla numero 59 vedo un paio di Nike. Sbircio dentro: ci stanno due letti, uno scaldino, una sedia e una bombola a gas. Dalla finestra s’intravede un volume del National Geographic Africa Subshariana.
Bussiamo. Ci viene ad aprire Sharif. Trentasette anni, del Bangladesh. <<Sono arrivato venti giorni fa invitato dal mio amico etiope>>, racconta.
Ci mostra la baracca dove provvisoriamente vive, in attesa di tornare in una casa vera. Dietro una porta chiusa Mohammed dorme.
Sharif si vergogna un po’ ad indicarci la sua buca. Ci ha buttato un materasso sporco. E’ un muratore disoccupato, ha uno sguardo vispo che punta lontano. E sa che presto ce la farà a tornare un cittadino visibile.
Per il momento fa parte della casta degli intoccabili. Quelli che Ascanio Celestini definirebbe “cadaveri vivi”.
“Siamo i punti dopo le virgole – canta Celestini – errori d’ortografia, assieme a drogati, zingari e zoccole”. Insomma quelli che una parte della città fa finta non esistano.
Su una tavoletta di legno compensato leggo una frase scritta col pennarello nero che pare un messaggio in una bottiglia: “I love you I.M.G. I miss you more”.
D’inverno i ragazzi eritrei vengono trasferiti altrove. Ce lo spiega un operatore di MEDU, la onlus Medici per i Diritti Umani. Gli ultimi arrivati però, ancora resistono, vittime della disoccupazione e degli affitti impossibili.
Da una delle baracche rosse compare Yared. Ha gli occhi impastati di sonno. Quarantadue anni. Etiope. Vive in Italia da 20 e prima faceva il badante. Se potesse tornerebbe a casa sua, in Africa. Ma per ora è incastrato in questo limbo di povertà, dove non vivi ma neanche scappi.
I medici di PRIME spiegano che le Messi d’Oro nasce nel 2003 come insediamento di famiglie Rom e poi diventa “la cittadella” degli africani: a luglio del 2013, dieci anni dopo la nascita del campo, PRIME Italia, grazie a una video maker che entra nell’insediamento, viene a sapere della struttura e da allora li assiste.
Qui, le asl di Roma B, insieme ad associazioni del privato sociale (Croce rossa italiana, Caritas di Roma, Medici per i diritti umani, Medici senza frontiere e Cittadini del mondo) hanno creato una rete territoriale “di prossimità” per assicurare prestazioni tempestive ed efficaci.
L’assistenza medica “ambulante” quindi arriva nelle baracche. Quello che non arriva è il calore umano del resto degli abitanti.
Per curiosità ci affacciamo anche in una delle villette con giardino che sorgono proprio difronte al campo: una signora bionda zappetta in giardino, suo marito viene a parlarci. Si lamenta dell’immondizia, dice che i migranti non hanno cura di gettare i loro rifiuti nei cassonetti. Una questione di pulizia, dice.
Ma come è possibile che chi dovrebbe essere accolto ed assistito perché rifugiato o richiedente asilo, viva in insediamenti autogestiti?
Risponde PRIME sul suo sito web: <<a Roma vivono circa 8000 persone tra richiedenti asilo e titolari di protezione internazionale. Tutti hanno diritto ad un alloggio, oltre ai servizi di base, ma la realtà vuole che la maggior parte dei rifugiati si trovi a sopravvivere per strada o in condizione di indigenza ed emarginazione>>. Anche questa è Roma. La città che fa finta di non vedere e non sentire, che s’indigna quando la miseria esce allo scoperto, ma solo per paura di venirne contaminata.
(report di ilaria de bonis e Alex Zappalà. foto: di Alex Zappalà)