Secondo l’Intergovernmental Panel on Climate Change delle Nazioni Unite il tasso di innalzamento della temperatura dell’aria al Polo Nord è di circa il doppio di quello medio della terra: i ghiacci artici si assottigliano progressivamente e ogni anno diminuisce la loro estensione. La preoccupazione delle grandi potenze, tuttavia, è concentrata su altro.

Tenere il surriscaldamento climatico entro i due gradi centigradi, come concordato alla Conferenza di Parigi nel 2015, non è una priorità per la maggior parte di loro.

Sicuramente non lo è per gli Usa (che con Donald Trump si erano ritirati da quell’Accordo e che ora attendono le contromosse di Joe Biden), né per Russia e Cina; che fanno a gara, invece, per accaparrarsi un pezzo di Artico to drill, da trivellare.

Ma c’è di più: secondo diversi ricercatori, con lo scioglimento dei ghiacci e la mitigazione del clima (che facilita il lavoro degli operai) i costi di estrazione e commercializzazione del greggio potrebbero sensibilmente diminuire, favorendo quindi le ragioni per proseguire questa moderna “corsa” all’oro.

La Norvegia sembra il Paese europeo che più controlla la non proliferazione del business nero. Ma in ogni caso il gas e il petrolio del Nord stanno diventando l’ultima frontiera dei cercatori di energia, che raschiano così il fondo del barile.

Nel farlo, però, mettono a rischio i Poli. Affondano le trivelle in mari non più ghiacciati, alla ricerca di fonti energetiche fossili e dunque non pulite, in una parte di mondo meno “calda” (in tutti i sensi) rispetto al Medio Oriente.

Il vantaggio è senza dubbio quello di non dover ingaggiare guerre scomode in territori sconquassati (vedi l’Iraq) da precedenti conflitti, che hanno totalmente destabilizzato l’area mediorientale.

Riscaldamento climatico funzionale

A parlarne, oramai da qualche anno, sono diversi think thank, organizzazioni ambientaliste, come Greenpeace, e ricercatori universitari.

Ogni grande potenza ha le sue buone ragioni per essere presente nell’Artico, dicono gli scienziati. Per la Russia «la logica – scrive il ricercatore Domenico Letizia, autore del saggio “La corsa all’Artico” – è quella di generare maggiori possibilità di sfruttamento delle risorse artiche, favorire la crescita economica del versante settentrionale della Russia europea, decongestionare e filtrare il traffico sulla Transiberiana».

Eppure nel Mar Glaciale Artico sembrano manifestarsi ancora più sensibilmente i cambiamenti climatici: la calotta polare si trova sull’Oceano, che assorbe il calore e presenta temperature anche miti nel periodo estivo. Entro 70 anni la temperatura nell’Artico potrebbe crescere di sei gradi, riporta uno studio dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (Ispi).

Prima che le urne decidessero per il cambio di presidenza, l’amministrazione Trump stava lavorando per consentire la perforazione esplorativa dei bacini di petrolio e gas naturale in una parte dell’Arctic National Wildlife Refuge, un’area chiaramente da sempre protetta.

Ambientalisti vs Trump

Una buona notizia su questo fronte forse c’è: nonostante i tentativi dell’ex presidente Usa di ottenere il permesso di perforare l’Artico prima dell’insediamento di Joe Biden alla Casa Bianca, pare proprio che gli sforzi degli attivisti abbiano avuto la meglio. Cinque tra le maggiori banche d’investimento americane (tra cui Goldman Sachs e Jp Morgan), riportano diversi giornali tra i quali il britannico The Conversation, hanno deciso a dicembre scorso di non voler sostenere economicamente l’investimento della perforazione dell’Artico.

Troppo pericoloso per la loro immagine e troppo rischioso per via del sollevamento generale e delle proteste dei movimenti green.

Questa prima battaglia sembra vinta dagli ambientalisti, ma la “corsa” all’oro continua e sarà bene monitorare attentamente nei prossimi mesi cosa accade al Nord (Groenlandia compresa), e non solo da parte americana. Poiché, mentre gli occhi del mondo e i riflettori mediatici sono ancora puntati sul Medio Oriente, nella sfera opposta del globo accadono fatti poco rassicuranti per le sorti del pianeta e il business prosegue la sua corsa as usual.

Quando papa Francesco parla di «un’economia che uccide» si riferisce anche a questo: ad un mercato che ferisce la Terra e ferendola minaccia flora e fauna e di conseguenza l’esistenza in futuro dell’intera umanità.

La geopolitica in modo accorto sposta le sue pedine laddove l’attenzione e il controllo della società civile organizzata sono meno evidenti; o dove mancano gli strumenti per porre un freno agli appetiti di chi comanda.