La novità più grossa nella regione della Mirdite, nordest dell’Albania, negli ultimi tre anni l’hanno portata i turchi: è l’autostrada “della Patria”. Lunga 272 km, collega città, campagne incolte e villaggi sbilenchi attorno alle ex fabbriche di rame e cromo, spettri del produttivismo sovietico. Da Tirana arriva fino in Kosovo. Collegamento quasi vitale, poco attento alle alterazioni delle forme e del paesaggio, però.

Prima che i turchi, subappaltati dagli americani (il consorzio Bechtel – Enka), portassero lavoro e infrastrutture al nord, lasciando in cambio un debito da saldare, lo scorrere lento del tempo qui aveva un significato più profondo. Ne serviva davvero tanto per arrivare da un punto all’altro del Paese. Eppure accadeva soltanto pochi anni fa. «Il nord rimane povero, rurale e culturalmente isolato», spiega don Roberto Ferranti, missionario bresciano di 35 anni.

La natura qui è disordinata, sventrata, fusa col grigio però a tratti sorprendentemente bella. Ci muoviamo veloci in jeep: prima da Tirana a Rreshen, passando villaggi colorati, a maggioranza musulmana, come Rubik, dove si fuma all’aperto nei mille bar dell’unica via. Poi verso Fane, e poi ancora nella storica Scutari con la sua fortezza di Rozafa. Roberto domenica celebra messa all’abbazia di Orosh, circondata dai monti. Incantata.

Una fatica raggiungere le chiese sperdute, soprattutto d’inverno tra fango e neve. Le famiglie arrivano alla spicciolata. A piedi. Nel 1976 l’Albania venne proclamata “unico Paese ateo al mondo”. La perversa antropologia dell’“Uomo nuovo” del dittatore Enver Hoxha aveva distrutto il pensiero di Dio. Oggi, a 20 anni dalla ritrovata libertà, si è cristiani o musulmani più per tradizione che per convinzione profonda.

«La fede è come la democrazia: ora che c’è libertà, è possibile ma ancora troppo debole. La gente è disabituata a condividere», spiega don Roberto, che è arrivato a Rreshen come fidei donum cinque anni fa. Adesso ha un piccolo seguito di giovanissimi laici impegnati, come Mira, Genc e Gjergji. E don Roberto ricambia con un’energia e una dedizione uniche.

A cena mi parlano dello sforzo fatto per ricostruire una comunità cristiana viva e attiva. Mira manda un sms a suor Gesù Bambino: 28 anni, foggiana, questa ragazza minuta e forte – Maria Luisa, alias Gesù Bambino – è entrata nell’ordine delle Serve del Signore e della Vergine del Matarà. Si occupa di una miracolosa casa per disabili. Con loro vive anche una bimba di sei anni, Artiola. Capisco solo entrandoci che la comunità qui è già risorta.

In Albania oggi il bisogno di missionari è praticamente vitale: ce ne sono di illuminati come don Gianfranco Cadenelli, parroco di Baz che vive sulle montagne, o come i padri somaschi alla guida di una scuola professionale a Rreshen. E poi ancora le suore dorotee a Suc e quelle della Carità di Santa Giovanna Antida a Fane.

Molto lavoro, tanta fatica. «Per quasi 50 anni è stato negato a questa gente il diritto di credere in Dio e anche quello di pensare liberamente con la propria testa. Era vietato pregare, possedere crocifissi, riunirsi in gruppo», spiega suor Rosela Fumagalli, missionaria di Fane. E le conseguenze sono ancora tangibili.

Violenza e Kanun

«La libertà in Albania è stata concepita nel modo più crudo possibile, senza vincoli morali, religiosi o culturali. Tutto è possibile e tutto di fatto può accadere nel Paese delle Aquile», dice Sokol Kondi, 29 anni, giornalista del Tirana Observer e del portale Albanianews. «La situazione è comparabile al far west americano per quanto riguarda il rapporto con le leggi e le regole. Certo, ci sono giovani che lavorano, che vanno al cinema, che frequentano biblioteche o sale da tè, ma la maggior parte passa tantissime ore nei bar a fumare e a contare le tazze di caffè», racconta. Lo stesso Sokol, che è un freelance, dice che i giornalisti impegnati non hanno vita facile in Albania: «Fare il giornalista è bello e pericoloso. C’è tanto da scoprire e da indagare, ma qualche volta si è scomodi, e per questo si potrebbe pagare anche con la vita».

Dal suo esilio in Francia lo scrittore albanese Ismail Kadarè, scrive che «in queste condizioni la libertà, la democrazia e il suo sistema politico repubblicano non sono che virtuali. La lotta per la guarigione morale dell’Albania non è una questione di perfezionamento o di lusso culturale».

È una questione di sopravvivenza. La violenza è aumentata al punto che la Chiesa di Scutari, il 16 settembre scorso, ha emanato un decreto di scomunica contro «chiunque commetta omicidio».

Il testo dice: «Alcuni uccidono a volte senza nessuno scrupolo o si vendicano in modo sanguinoso e barbarico. Costoro si autogiustificano dicendo che applicano il Kanun», il più antico codice consuetudinario, che fa perno sulla faida e sull’”onore” alimentando circuiti di violenza clanica. Un ritorno al passato. «È molto difficile capire che origini ha la violenza – spiega suor Rosela – ; non è innata, è un modo per difendersi da una paura che diventa angoscia e che spesso è più culturale che reale». D’altra parte nel Paese resistono i fantasmi del passato. Sagome dei bunker grigi a forma di igloo sono disseminati ovunque. Non fanno più paura.

I giovani e l’Europa

Passeggiare la sera attorno alla piazzetta squadrata di stampo sovietico, dà la misura di quanto l’Albania sia giovane, a dispetto della politica opaca e dei ricordi indelebili della dittatura. È giovane perché è fatta di giovani. La fascia tra 0 e 14 anni rappresenta il 29% della popolazione. Fiumi di adolescenti e di ventenni in movimento: studenti, disoccupati, universitari, manovali. Siedono nei bar a bere birra Stela. Non hanno ancora ripreso l’università.

Per studiare si va a Tirana o a Scutari. Le famiglie li vogliono laureati. Anche se spesso la laurea ha solo il valore d’un pezzo di carta. Le università private negli ultimi anni sono spuntate come funghi: avveniristici palazzi di vetro svettano a Tirana. Qui si conosce bene la storia di Renzo Bossi e della sua laurea triennale in Gestione aziendale comprata all’università Kristal di Tirana. Gli istituti privati sono una sessantina per tre milioni di abitanti. Il liberismo economico si manifesta nella grande offerta di istruzione a prezzi variabili e qualità discutibile.

Viktoria, aspirante giornalista, vive nel villaggio di Fane ai piedi dei monti e della famosa autostrada turca: «Ho dei genitori meravigliosi che hanno creduto in me – dice – Quando studiavo giornalismo a Scutari, se facevo un piccolo errore, mi sentivo morire dentro. La cosa più difficile per me è essere spezzata in due: una parte qui, in un villaggio piccolo dalla mentalità chiusa, una parte a Scutari». Moltissimi nel nord povero vivono questa scissione.

Ma quasi tutti a meno di 30 anni sono già adulti. Come Gjergj, 23 appena, che negli ultimi 5 anni ha vissuto una vita intensa. Ed è cresciuto in fretta. Sguardo deciso e intelligente. Mentre andiamo verso Burrell, passando laghi trasparenti, riflessi di montagne e ponti mobili, mi racconta del viaggio da clandestino fatto a 17 anni, per arrivare in Italia. «Ho camminato due giorni e una notte, a piedi, sui monti, per passare il confine con la Grecia. Ci siamo fermati solo tre ore per dormire. Quando camminavo non sapevo neanche dove mettevo i piedi; poi da Atene siamo arrivati in Italia in aereo. Un amico è venuto a prendermi a Linate».

A Roseto degli Abruzzi ha lavorato come muratore. «È vero che oggi stiamo male in Albania – dice – ma devi sapere che non siamo mai stati meglio di così. Adesso possiamo andare liberamente in Europa. Questo per me è fondamentale. Io posso viaggiare anche senza visto!». Ai giovani interessa la libertà. E la libertà è movimento. Nel 2010 le frontiere europee sono state aperte e si può rimanere fino a 3 mesi fuori dal Paese per turismo. Nel frattempo la commissione europea ha appena deciso di accordare all’Albania lo status di Paese candidato all’Ue.

 50 anni di terrore

Dagli schermi della tv il volto mummificato di Sali Berisha, leader del Partito Democratico al potere, ci guarda vitreo annunciando progressi economici. La verità è che il Paese ristagna. Sopravvive in gran parte grazie alle rimesse dei migranti: dal 1992 al 2007 sono aumentate dell’870% e il loro valore oscilla tra il 10 e il 20% del Pil. Berisha, ex medico del dittatore, è premier dal 2005 (è stato Presidente della Repubblica dal 1992 al 1997). Un populista trasformista che il popolo non ama. Ma lui sembra aver fatto un patto col diavolo. E col potere. «È una classe politica che viene sempre dalla stessa nomenclatura, questa. I dissidenti albanesi e gli intellettuali e gli artisti sono stati perseguitati, esiliati, uccisi – spiega Luigj Gjergji, avvocato impegnato in politica -. Questi giovani sono ancora troppo giovani per sostituirli».

Ci sono due nuovi partiti: l’Alleanza Rossonera guidata da Kreshnik Spahiu e il Nuovo Spirito Democratico, una fazione del PD di Berisha.

Quando s’inizia a parlare di politica in Albania si finisce inevitabilmente col parlare di Enver Hoxha. A capo del Partito del Lavoro dell’Albania, e al potere dal 1944 al 1985, l’anno della morte, il dittatore ha lasciato un solco profondo. Il segno lo vedo negli sguardi di Ded e Drane Gjoci, ad esempio. Quest’uomo di mezza età è stato un militare dell’esercito negli anni del regime. Quando ricorda ride malinconicamente dei suoi ricordi, come se realizzasse assieme a noi, d’aver per mezzo secolo creduto ad una favola dark.

«Per il 70% della mia vita ho vissuto lontano da mia moglie e dai miei tre figli. La disciplina militare era molto dura. Tutto era obbligo, non potevi scegliere».

La vita privata non era tollerata dal Grande Fratello albanese. Controllo, manipolazione, sospetto erano gli strumenti della propaganda. «La tv allora aveva sei ore di programmazione al giorno e un solo canale, se trovavano canali in lingua straniera andavi in carcere. Solo per aver osato pensare cose diverse da quelle del regime! La fede era considerata un veleno», racconta Ded Gjoci. La costruzione dell’ “Uomo nuovo” prevedeva la distruzione del vecchio, ossia il religioso, l’intellettuale, l’ex benestante.

«La critica non era ammessa neanche per quanto riguardava i gusti o le opinioni personali». Eppure si continuava a votare. «C’era solo una scatola nera con una possibilità di voto.

Le votazioni si aprivano alle sei del mattino e alle 9 già tutto era finito. Alla tv annunciavano che ancora una volta aveva vinto Enver Hoxha col 90% dei voti», racconta la signora Drane. Man mano che la nostra conversazione scivola via, seduti sui divani di una casa decorosa ed essenziale, lo sguardo bello di Drane si incupisce.

«Quando il regime è crollato nel 1991, ci dicevano che ci sarebbero state le mele durante tutto l’anno, le lavatrici, le tv, ma noi non ci credevamo…». Non si aveva più neanche il coraggio di sognare. E poi assieme alle mele, alle lavatrici, alla tv, è tornata pure la libertà. Nessuno sarebbe più finito in galera per un crocifisso ritrovato in casa o per un rosario incautamente stretto in palmo. «Chi non crede che Cristo è risorto venga in Albania», dice profeticamente il vescovo di Scutari, monsignor Angelo

Massafra. Nella sagrestia della cattedrale di Santo Stefano, trasformata dal dittatore in un palazzetto dello sport, fra Vincenzo Focà, vice postulatore della causa dei martiri, mi mostra un sacchetto trasparente gelosamente conservato in un cassetto: contiene ossa. Sono i resti di alcuni degli uomini di fede uccisi dal regime.

Il partito comunista si accanì contro religiosi, suore, cre- denti, laici, liberi pensatori e contro molti frati francescani:

«Venivano legati mani e piedi, torturati in modo feroce e disumano. Le testimonianze dicono che vennero spogliati, aggrediti, incarcerati, uccisi», racconta fra Vincenzo.

Rivela che sta raccogliendo oggetti, scritti, foto, immagini, quadri, libri che raccontano il supplizio dei martiri e che faranno parte di un museo della fede. Nel convento dei Cappuccini fra Viktor è il responsabile della biblioteca di testi antichi che risorge a Scutari. Con amore e dedizione questo giovane francescano sta ricostruendo una collezione andata perduta.

E adesso che l’incubo è finito, cosa rimane di quel passato oscuro e di questo presente tutto da rifare? Albert Nicolla, antropologo albanese, dice che gli albanesi stanno riscoprendo a fatica un senso dello Stato, dopo la terribile violenza subita proprio da parte dello Stato. La fiducia reciproca è stata interrotta, violata, calpestata. Ci vorrà del tempo. Forse ancora molto per rimediare alle aberrazioni della storia.

«Alla nuova generazione degli albanesi spetta il compito storico di far diventare reali i valori di libertà e democrazia – scrive Ismail Kadarè -. In poche parole: far rinascere l’Albania. Una fortuna storica che non capita ad ogni generazione».

(testo e foto ilaria de bonis)