Un ricercatore indiano di 28 anni, Riddhi Dasgupta, è l’uomo che si nasconde dietro la “seconda” primavera tunisina.

Quella che è seguita alla rivolta di avenue Bourguiba (dicembre-gennaio 2011) e che a distanza di due anni ha prodotto un risultato tra i più importanti per la Tunisia: la nuova Costituzione.

Naturalmente il testo è frutto dell’Assemblea Costituente tunisina e di anni di stesure, dibattiti e confronti politici. E’ stato l’esito di un dibattito pubblico costante, spesso travagliato.

Ma è anche grazie al contributo di esperti internazionali, come quelli  del Team W, che la Tunisia ha fatto storia.

Nell’autunno del 2011, Riddhi, brillante studente di Diritto internazionale a Cambridge (aveva già intrapreso con successo la carriera accademica) decise di contattare l’Assemblea Costituente tunisina.

«Io e George Bangham mettemmo assieme un gruppo di 35 esperti di diritti umani, legge ed economia – racconta Riddhi Dasgupta – composto da americani, bengalesi, britannici, tedeschi, indiani, spagnoli e naturalmente tunisini.

La Tunisia doveva fare le proprie scelte, ma pensammo che dei consulenti internazionali avrebbero aiutato l’Assemblea a capire che cosa altrove aveva funzionato e cosa no».

E così fu.

Nacque il Team W: alcuni veterani della Wilberforce Society di Cambridge che hanno contribuito alla riuscita della rivoluzione democratica tunisina.

«Nonostante lo scetticismo diffuso, il Team W si adoperò a partire dal 2011 per produrre uno dei documenti costituzionali più progressisti», spiega Dasgupta.

Se c’è un Paese tra quelli del Medio Oriente in rivolta, che è stato in grado, pur tra mille difficoltà e due omicidi “eccellenti” (il dirigente del partito progressista, il Fronte Popolare, Mohammed Brahmi è stato ucciso il 25 luglio dello scorso anno, mentre il 6 febbraio 2013 venne colpito a morte il leader dell’opposizione Chokri Belaid), di imprimere una svolta soddisfacente alla post-dittatura, questo Paese è proprio la Tunisia.

Il quotidiano parigino Le nouvelle Observateur, parlando della nuova Costituzione, titola “Il miracolo tunisino”.

La legge base del nuovo Stato ha visto la luce il 26 gennaio 2014, con 200 voti a favore, 12 contrari e quattro astenuti. Molti esponenti della società civile tunisina hanno cercato di comunicare all’Occidente (spesso sordo) che dal loro punto di vista la rivoluzione era stata già vinta. La stessa impressione che emerge parlando con i missionari cattolici in Tunisia: le suore e i padri Bianchi, presenza minoritaria ma costante nel Paese, giudicano decisamente positivo l’epilogo della rivoluzione dei gelsomini.

Padre Jean Fontaine, ex direttore dell’Istituto arabo di Lettere, ha fatto sapere che «il testo della Costituzione fa in modo che i tunisini non musulmani possano vivere in pace nel Paese», il che è fondamentale per i cristiani, considerato che si contano 11 milioni di musulmani, circa 1.400 ebrei tunisini e circa 20mila cristiani.
Monsignor Ilario Antoniazzi, Arcivescovo di Tunisi, spiega che «nel 1964 le oltre 100 chiese che fino ad allora la comunità cattolica tunisina possedeva sono state per lo più espropriate dallo Stato».

Sopravvivono oggi appena cinque chiese ed otto scuole cattoliche. Tutelare questa minoranza per legge è dunque un passaggio cruciale.
Altra storia è invece quella dell’endemica povertà: dal punto di vista della crescita del Pil e della produttività, il Paese è in una fase recessiva tra le peggiori, che genera ulteriore povertà. Chi ha combattuto più per il pane che per la libertà è rimasto profondamente deluso. Soprattutto all’estrema periferia della Tunisia, come a Gafsa, dove la crisi ha colpito pesantemente il settore minerario del fosfato.

L’azienda chimica di Stato, il Gruppo Chimico Tunisino, partecipa a progetti di cooperazione internazionale con partner come l’India e la Cina.

Per ora però i dati macroeconomici parlano da sè: nel luglio 2013 il tasso di disoccupazione ha raggiunto quota 16,5%, mentre prima della rivoluzione si attestava attorno al 13%. Allo stesso tempo, l’inflazione è aumentata del 6,5%. Il turismo (che rappresenta circa il 7% del Pil tunisino) ha subito una pesante battuta d’arresto, dovuta ai timori di disordini e violenze.

Ma la libertà aiuta sulla strada della ripresa: il testo della nuova Costituzione dà infatti vita ad un regime semipresidenziale, ad un’affermazione puntuale dei diritti civili (si parla anche di abolizione della tortura) e ad una difesa della religione islamica (che è religione di Stato) ma non della legge coranica, la sharia, che non compare nel testo.

«Lo Stato protegge la religione» ma nel contempo, e questo è molto importante, «garantisce libertà di fede, di coscienza e di pratica religiosa». Lo Stato inoltre «proibisce le accuse di apostasia (takfir) e di incitamento all’odio e alla violenza».

A detta di molti si tratta di un ottimo compromesso con gli islamisti.

«Formalmente in Tunisia la Costituzione consente ai musulmani di convertirsi al cristianesimo – ha dichiarato anche monsignor Maroun Lahham, ex arcivescovo di Tunisi – E qui i ragazzi che hanno fatto la rivoluzione hanno stili di vita moderni, usano twitter, facebook, youtube. Bisogna vigilare ma non credo che si riuscirà mai a trasformare la Tunisia e l’Egitto nell’Iran o nell’Arabia Saudita».
Esattamente un anno fa passeggiando per la Medina di Tunisi e lungo avenue Bourgouiba, il luogo simbolo della rivoluzione, avemmo l’impressione di un Paese confuso, ancora sotto shock, ma sostanzialmente vivace, seppur diviso. Un Paese finalmente libero.

In quell’occasione incontrammo una femminista, Chema Gargouri, direttrice della Enterprises Fèminines Durable: «L’Europa pretende che la Tunisia sia un modello perfetto, una sorta di “copia e incolla” dalle democrazie occidentali – spiegava – Se questo non succede nell’immediato gridano al pericolo islamico. Ma non si può cambiare in un solo giorno e neanche in un solo anno! E’ un processo lungo che stiamo affrontando».

Certo il testo della Costituzione contiene anche articoli migliorabili, a detta degli esperti.
La sociologa Amel Boubekeur spiega che «ad una lettura minuziosa del documento si evidenziano falle ed ambiguità relativamente agli articoli 7 e 22».

Nel primo dei quali si dice che «la famiglia è la cellula essenziale della società e lo Stato deve assicurarle protezione», ma non è abbastanza chiaro in che modo questo debba avvenire.
Un deputato di Ennahda intervistato dal quotidiano La Stampa qualche tempo fa aveva dichiarato: «È più facile abbattere le dittature che ricostruire. Noi abbiamo fatto le maggiori rinunce per arrivare al compromesso costituzionale, abbiamo accettato il sistema presidenziale anche se preferivamo quello parlamentare perché più adatto a una democrazia nascente. (…) Certo ci sono i fanatici, i salafiti, i terroristi ma li abbiamo denunciati e perseguiti: in uno Stato di diritto chi sbaglia, anche con le parole, deve pagare».

E questo è l’auspicio di quella parte di mondo che tiene per i rivoluzionari (non più della prima ora), in grado di dimostrare maturità istituzionale e amore per la democrazia. (di Ilaria De Bonis- da Popoli e Missione di marzo 2014)