Isolate nel nordest rurale della Cina ci sono sei “miniere” assolutamente fuori dal comune. All’interno di queste factory degli anni Duemila – dette mining pools – non si estraggono oro o minerali preziosi: si producono Bitcoin, monete elettroniche.

La proprietà delle fabbriche è di un gruppo segreto di quattro persone, manager cinesi che hanno deciso di investire nella moderna ricerca dell’oro.

Ad ottobre del 2014 le sei miniere generavano 4mila e 50 Bitcoin al mese, ma consumavano anche un livello tale di energia elettrica da costare 80mila dollari in bollette mensili. Il che significa un uso del carbone alle stelle ed un accentuato inquinamento dell’atmosfera.

La prima delle sei miniere sorge a Dalian, nella zona di Changcheng: è qui che il gruppo di amici ha messo su il progetto, diventando azionista di una fabbrica di Bitcoin.

Il sito Motherboard ha realizzato un documentario su questa realtà in espansione: al secondo piano di un edificio qualsiasi, un migliaio di computer producono algoritmi e rispondono a quesiti on-line. Entrare nella fabbrica è come metter piede in un mega-ufficio fantasma. Deserto, ma in piena attività.

«Andiamo avanti e indietro tutto il giorno, in una corsa contro il tempo, per rispondere ad una domanda di calcolo, prima che ci arrivino gli altri», spiega in modo criptico uno dei manager. Che vuol dire?

«Chiunque faccia il calcolo giusto viene ricompensato e guadagna – dice lui – Al nostro massimo riusciamo a fare 100 bitcoin al giorno nelle sei fabbriche. Ma siccome le difficoltà e la potenza di calcolo aumentano, è sempre più difficile ed anche i costi dell’elettricità sono un fattore collegato».

Il Bitcoin è in effetti un sistema di pagamento elettronico gestito esclusivamente online, senza corrispettivo cartaceo, progettato per funzionare al di fuori del controllo delle banche.

Tanto che il sistema bancario tradizionale non lo ama affatto.

La Cina, che ricava il 60% dell’elettricità dal carbone, è il maggior operatore di miniere di questa natura, e probabilmente conta un quarto di tutto il potenziale mondiale usato per produrre cripto-monete, secondo uno studio divulgato da Garryck Hileman e Michel Rauchs della Cambridge University.

Circa il 58% di questo tipo di mining pools ha sede in Cina, seguita subito dopo dagli Usa che ne possiede il 16%.

Le server fabbriche sono collocate per lo più nelle province di Xinjiang, Inner Mongolia e Heilongjiang.

Il mezzo di produzione non è una carta di credito elettronica bensì una App.

Nello stesso anno in cui Lehman Brothers negli Usa dichiarava bancarotta (il 2008), un misterioso programmatore con lo pseudonimo di Satoshi Nakamoto annunciava al mondo intero, tramite un forum di crittografia, la nascita dei Bitcoin. Vediamo meglio come funziona.

Apparentemente molto democratico e soprattutto svincolato dalla produzione di debito (è un po’ come tornare al sistema aureo, con parità fissa, solo che dietro non c’è oro e nulla luccica), il sistema appartiene alla comunità.

E’ peer-to-peer, ossia di rete paritaria. Ricalca un modello informatico di architettura logica in cui i nodi non sono gerarchizzati sotto forma di server fissi, ma fungono sia da client che da server. Sono cioè in linea orizzontale e comunicano tra di loro da una posizione di parità.

Gli utenti tengono continuamente aggiornato un unico file che ha la funzione di “registro contabile” accessibile a tutti, sul quale sono costantemente riportate tutte le transazioni di denaro dall’inizio fino ad oggi.

Il registro è chiamato blockchain.

Non c’è un sistema piramidale dietro, ma una comunità che garantisce la sicurezza e la correttezza delle operazioni. La vera novità dunque sta nel fatto che si conia moneta e si accede ad un mercato svincolato da qualsiasi intermediazione finanziaria. Siamo in un sistema parallelo a quello bancario. Il quale però tenta di replicarlo.

Il sistema di “estrazione” dei Bitcoin ha dinamiche simili a quelle dei primi cercatori d’oro: la materia preziosa si cerca rispondendo a domande informatiche formulate da un algoritmo, le quali diventano sempre più complesse man mano che il sistema si perfeziona. Le nuove monete hanno però un tetto massimo di produzione, sono quindi un bene finito.

Dopo aver elencato alcuni “vantaggi”, passiamo ad analizzarne i difetti. Per restare competitivo un miner è costretto a dotarsi di hardware sempre più potenti, impiegando risorse, energia e tempo.

Diventa quindi un vero e proprio lavoro. Dove non c’è spazio per il dilettante.

Spesso il miner unisce le proprie forze ad altri “cercatori”, nei cosiddetti “mining pool”.

Ecco quello che hanno fatto i quattro amici in Cina: hanno creato una squadra. Loro sono la testa, gli operai i tecnici. La presenza tecnica deve essere garantita 24 ore al giorno in miniera, ma non serve molto personale: bastano poche persone per un sito, e non devono essere attive tutto il tempo.

«La maggior parte dell’attività consiste nel monitorare le macchine, ma poi gli operai possono dormire, leggere, fare altro», spiega il manager.

Rimanendo nei paraggi nel caso in cui il sistema andasse in tilt, o l’elettricità saltasse e così via. «E’ un lavoro molto noioso – dice il cinese – ma non è faticoso».

Sostanzialmente tutto il grosso del lavoro di calcolo lo fanno le macchine che “scavano” nella speranza di trovare una pepita inesistente. Ossia una moneta virtuale.

Chi entra nel gioco accetta dei pagamenti in Bitcoin e ne fa a sua volta; la novità è che può anche fare shopping nel deep web, quella parte del web segreta e in gran parte fuori legge, dove si acquistano armi e droghe di ogni tipo. Questo è l’aspetto più inquietante e meno trasparente di tutta la faccenda. L’altro effetto perverso è quello della bubble: la bolla finanziaria.

In effetti a non amare la moneta elettronica non sono solo le banche, ma anche i più grandi economisti che mettono in guardia.

Primo fra tutti, Joseph Stiglitz che ha dichiarato: «I Bitcoin hanno successo solamente perché in possesso di un alto potenziale per aggirare le leggi fiscali, ma non hanno alcuna funzione sociale. Se i governi mettessero fuorilegge la cripto-valuta, il suo valore di mercato crollerebbe immediatamente».

Dello stesso avviso è Paul Krugman che risponde a Business Insider: «E’ tutto immerso in quest’alone di mistero, perché è la tipica cosa tecnologica sofisticata che nessuno capisce davvero. Non c’è stata finora alcuna dimostrazione del fatto che sia davvero utile ai fini della conduzione di transazioni economiche». Una bolla più aleatoria di quella dei mutui subprime, parrebbe. Robert Shiller, che ha vinto il Nobel per un lavoro sulle ‘bolle’ finanziarie ha spiegato che la moneta ha un valore «anti-governativo e un sentore decisamente anti-regolatorio».

E’ come se prosperasse al di fuori delle regole classiche: «sarebbe una magnifica storia se fosse vera», ha detto a Bloomberg. Goldman Sachs afferma che si tratta di un «veicolo per perpetuare una frode».

Il miliardario Carl Icahn afferma che «sembrerebbe proprio una bolla». In grado di far crollare un intero sistema finanziario.

Dietro, insomma non c’è ciccia. Peggio. Dietro c’è speculazione. Sarebbe un sistema finanziario ancora più potente perché due volte virtuale. A differenza dell’euro, del dollaro e di tutte le moneti correnti i Bitcoin sono agganciati ad un valore determinato e finito.

«Si tratta di un’attività speculativa instabile», ha dichiarato William Dudley, presidente della Federal Reserve di New York, che poi però svela di aver pensato ad una cosa simile: «la Banca centrale Usa sta pensando a una propria valuta digitale». Insomma, banche e banchieri odiano i Bitcoin perché li temono. Ma li vorrebbero.