In Cina qualcosa è cambiato nella lotta sociale. Un passo irreversibile è stato compiuto dai sindacati: lo dimostra la tenacia del braccio di ferro sindacale che per la prima volta in tanti anni ha visto gli operai di importanti fabbriche – come quella di Yue Yuen che rifornisce Nike e Adidas – contrapporsi ai padroni, chiedendo condizioni contrattuali migliori.

Su questa questione (e su molte altre che riguardano il diritto del lavoro) il China Labour Bullettin, sito web di informazione e ricerca della ong omonima, fondata ad Hong Kong nel 1994, è la fonte migliore per chi voglia sapere come stanno esattamente le cose.

Il Bullettin ha registrato ben 119 “incidenti” nella mappa degli scioperi nel solo mese di marzo. In totale, nei primi tre mesi del 2014 si sono avuti 202 scontri tra datori di lavoro ed operai cinesi, un 31% in più rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente.

L’attivismo sociale cinese è decisamente in crescita anche presso le piccole fabbriche «nonostante la copertura mediatica – si legge nel Bullettin – sia dominata da news che riguardano i negoziati di alto profilo in multinazionali note come la Walmart o la Ibm».

L’effetto domino insomma si è fatto sentire. Dietro ogni lotta sociale c’è sempre un leader trascinante che decide di non cedere: la stampa internazionale e alcuni siti di news cinesi hanno dato molto risalto alla figura di Huang Xingguo, operaio e sindacalista che ha spinto ad oltranza la rivendicazione alla Walmart di Changde, nella provincia di Hunan, a Sud della Cina. «Appena due mesi fa pochissime persone nei grandi magazzini della Walmart a Changde avevano sentito parlare di Huang Xingguo.

Oggi è probabilmente il più famoso rappresentante sindacale sia dentro che fuori la Cina», scrive il Bullettin.

Cosa ha fatto di così straordinario quest’uomo eletto presidente del sindacato meno di un anno fa e diventato presto un simbolo della lotta operaia? Semplicemente si è messo a fare il suo lavoro fino in fondo. Tutto ha inizio quando il 5 marzo scorso la catena americana di supermercati, Walmart, annuncia un piano industriale per la chiusura del negozio di Changde, come scrive il Southern Weekend, settimanale in lingua cinese che ricostruisce la vicenda.

La società annuncia all’improvviso la chiusura di quel punto vendita, senza avvertire i rappresentanti sindacali e dando agli impiegati due possibilità di scelta: accettare il trasferimento ad un’altra struttura – lontana però cento chilometri dalla precedente – oppure prendersi una buonuscita.

In altri tempi, fa notare il Southern Weekend, i lavoratori cinesi avrebbero accettato senza fiatare l’una o l’altra opzione. Ma stavolta no. Stavolta c’è l’agguerrito Huang Xingguo a difenderli.

«Avevo capito che il datore di lavoro aveva troppo potere e i lavoratori erano diventati troppo vulnerabili», spiega il sindacalista al settimanale.

Così Huang decide di diventare “un vero presidente di sindacato” ed inizia il lungo negoziato. In sostanza i lavoratori chiedono di conteggiare meglio la quota della buonuscita, tenendo conto degli anni accumulati di social security, ossia i contributi sociali, e raddoppiando la cifra proposta dal datore di lavoro.

Mentre nel caso di un trasferimento chiedono più garanzie e la copertura delle spese d’affitto, viaggio, scuola per i figli, ecc. Richieste che sembrerebbero ragionevoli in qualsiasi contesto sociale ma non in quello cinese. La Walmart non accetta le condizioni e non vuole negoziare, spiegando che per la chiusura di altri negozi non ha dovuto affrontare la stessa tenace resistenza.

La buona notizia è che da Changde la protesta si allarga: la lotta sindacale diventa una scelta tra la salvaguardia dei diritti e quella della stabilità. Il sindacato internazionale si sta mobilitando a fianco dei lavoratori cinesi.

L’altra storia di scioperi e lotta è quella contro una delle principali fabbriche di scarpe vendute alla Nike e all’Adidas, ed è raccontata dal Financial Times e anche dalla Reuters e da Bloomberg. Gli scioperi alla Yue Yuen Industrial Holdings sono importanti per le dimensioni della fabbrica e per il fatto che dalla provincia di Dongguan nel sud del Paese, si sono estesi ad altre fabbriche gemelle. La stampa economica internazionale comincia ad occuparsi dell’argomento in modo capillare e con continuità. A significare che l’intera economia cinese è in difficoltà e che queste fabbriche potrebbero un giorno chiudere i battenti.

Qualcosa sta cambiando sia nella modalità della protesta che nelle motivazioni alla base degli scioperi.

«Mentre fino a cinque anni fa la protesta poteva riguardare gli aumenti salariali, adesso riguarda la preoccupazione dei lavoratori nel caso in cui la fabbrica chiudesse – spiega un sindacalista al Guardian – Che tipo di risarcimento otterremmo? Ci verserebbero i soldi dell’assicurazione?».

Il problema dei contratti cinesi è che finora non sono stati rispettati o non sono stati siglati. Ai lavoratori è sempre mancato il versamento corretto di contributi, assicurazione, ecc. e nel caso di licenziamenti o chiusura improvvisa di fabbriche a loro manca del tutto la garanzia di un sussidio o di un Tfr.

«Circa duemila operai sono entrati in fabbrica lunedì mattina ma hanno incrociato le braccia nella fabbrica di Yue Yuen nella provincia di Jiangxi a sud della Cina, unendosi così di fatto agli altri 10mila lavoratori della fabbrica principale di Dongguan che sono in sciopero dal 14 aprile», scrive il Guardian del 22 aprile.

Il The Militant, settimanale di lotta sindacale che ha sede a New York, scrive che la compagnia di Taiwan, che produce le scarpe da ginnastica per i principali brand europei e americani, impiega in tutto circa 400mila persone nelle fabbriche di Cina, Vietnam e Indonesia: la richiesta è di un aumento dei contributi sociali e del sistema pensionistico.

Il segnale che l’economia cinese sta rallentando e che la produzione, anche a causa delle maggiori spese sociali, si trasferirà sempre di più in Vietnam e Cambogia, Paesi nei quali le tutele dei lavoratori sono ancora molto basse e dove la consapevolezza e la lotta sindacale non sono ancora iniziate.(da Popoli e Missione di giugno 2014)

 


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