«La Turchia è sempre più islamica ma sempre più secolarizzata», ci confida con preoccupazione, tirando fuori un’apparente contraddizione, Mustafa Cenap Aydin, sociologo turco, ricercatore all’Università Gregoriana e direttore dell’Istituto Tevere di Roma. Un esempio?

«Il consumo di alcolici negli ultimi dieci anni è triplicato. Ogni anno che passa, tornando ad Istanbul, vedo una secolarizzazione crescente anche tra coloro che dicono di essere praticanti. Fino a 15 anni fa la donna velata in Turchia era nemica del consumismo; adesso le donne turche – naturalmente quelle benestanti – volano facilmente a Roma per lo shopping sfrenato. Si tratta di un’esaltazione di un capitalismo feroce».

Qui la religione non rappresenta più tanto un elemento privato, intimo, legato allo spirito della preghiera, quanto piuttosto un simbolo, e un link col passato ottomano, da ostentare: «Attraverso il life style certa società turca fa molto riferimento alla religione ma con un bassissimo contenuto spirituale», spiega.

Giunti ad Istanbul, da turisti o da visitatori neofiti, si respira sottilmente quell’aria di neo-ottomanesimo imperante che riveste di colori, di sfarzo e di luci una bellissima città sotto assedio di un passato un po’artefatto.

Più si passeggia per Sultanhamet e si ammira la splendida moschea blu, più si percepisce che le frequenti rievocazioni imperiali legate certamente al turismo, sono però anche strumentalmente usate dal turismo per riattualizzare un’epoca.

L’Hirka-i-Saadet del Palazzo Topkapi è il padiglione delle reliquie e dei cimeli più preziosi del mondo islamico e degli oggetti appartenuti a Maometto. Il pellegrinaggio è d’obbligo.

Tanto più se dal quartiere Eminonu le signore saudite, delle quali possiamo ammirare a malapena gli occhi, dopo essersi immerse nelle storie di principesse e sultani, facilmente raggiungono in taxi i modernissimi quartieri alti, dove trovano le prestigiose firme della moda parigina e italiana. E alloggiano infine nei deluxe sul Bosforo.

Secondo il sociologo Aydin è stato il 2010 quel turning point per la Turchia che ha stigmatizzato per sempre una rottura con il laicismo faticosamente imposto e vigilato dai militari e l’allontanamento dal processo di integrazione europea.

Addirittura nel 2010 il Time aveva inserito Erdogan nella lista dei dieci candidati a personaggio dell’anno, assieme ad Assange e Lady Gaga. Erdogan che nel 2002 si era presentato come luce per il futuro della Turchia, è riuscito nel suo intento. La religione è stata sempre più inglobata e controllata dall’apparato statale, mentre il Paese si allontanava progressivamente dal modello di Stato che Atartuk le aveva impresso.

Inoltre se il kemalismo laicista, come scrive Paolo Quercia su un Limes del 2010, poneva come principio guida per la politica estera turca «quello di tenere il Paese fuori dalle trappole della politica mediorientale, il nuovo governo di Erdogan ha da allora eletto l’intero Medio Oriente a suo “estero vicino”». In nome di un islamismo moderato ma strisciante, ha cambiato identità e collocamento geo-politico.

Oggi la Turchia è un Paese che si vuole moderno dal punto di vista commerciale, ricco e in ascesa, ma adagiato sugli antichi sfarzi di un paradiso conquistato con la caduta di Costantinopoli e l’inizio del regno di Mehmet II. La perla di Istanbul, quel Palazzo Topkapi costruito nel 1453 col suo affascinante harem azzurro, è diventata meta obbligatoria per orde di turisti di Arabia Saudita, Qatar e Baharian, forse più di quanto lo sia Santa Sofia.

Le numerose famiglie poligamiche arabe, con donne nere e velate fino ai denti, raggiungono Istanbul per le vacanze estive. Quel Palazzo Topkapi è tra l’altro simbolo di antichi splendori che Erdogan tenta di replicare. L’Aksaray, ribattezzato Palazzo bianco – oltre mille stanze in stile neo-salgiucchide – è la nuova sede della presidenza, costato più di 350 milioni di euro. Sostituisce quella vecchia che dal 1923 ha ospitato i capi di Stato.

Ma in che consiste nel dettaglio questa sorta di lenta e strisciante re-islamizzazione turca che sembra cozzare contro la laicità del kemalismo? Lo chiediamo ad Cenap Aydin.

«La Turchia ha un islam particolare che è l’islam anatolico, culla della civiltà. Quando qui sono arrivati i turchi non hanno trovato il deserto, c’era una grande e ricca cultura presistente. Il partito di Erdogan certamente ha preso qualcosa di questo islam e ne ha usati alcuni simboli. Il suo è un islam politico. Una strumentalizzazione della religione islamica per fini di potere», dice senza mezze parole.

L’ultima polemica in ordine di tempo è quella della reintroduzione della lingua araba ottomana, che Erdogan vorrebbe fosse studiata a scuola, come lingua obbligatoria negli istituti islamici, e facoltativa nelle scuole laiche. Anacronistica perché ormai perduta, che si avvaleva di caratteri arabi e non latini, e che è stata abolita nel 1928.

«Lo studente che vuole scegliere può farlo – ha ribadito il premier Davutoglu – Chi non vuole può astenersi. Questa è la proposta. Cos’è questa allergia per la storia? Cos’è questa inimicizia per la cultura?»-

 

Ma di recente il Presidente ha fatto parlare di sé anche per una serie di provvedimenti liberticidi: l’attacco alla libertà di stampa, la censura su internet e la promozione di iniziative “bizzarre”, lo rendono inviso all’Europa e a quella parte di società civile turca che ama la democrazia, la libertà e il progresso e lo ha contestato fortemente in piazza Taksim.

Di contro Erdogan è amato dai monarchi sauditi che stabiliscono con lui alleanze economiche. E lui si vedrebbe volentieri alla testa di un rinnovamento di matrice islamica che ha nella riproduzione della grandeur dell’impero ottomano, il suo punto d’attrazione.

Nonostante tutto «Erdogan non è affatto sull’orlo del precipizio all’interno del Paese», ci conferma Francesco Mazzucotelli, ricercatore e docente del Corso di Storia della Turchia e del Vicino Oriente all’Università di Pavia.

«Il suo partito, l’Akp, ha vinto con tranquillità le elezioni e gode di una base elettorale attorno al 50%», ci spiega. Chi non vota per lui è diviso tra i partiti curdi, l’opposizione pura e giovane di piazza Taksim e l’estrema destra supernazionalista. Ma perché quest’uomo continua a riscuotere ancora tanto consenso, nonostante la stanchezza del popolo più aperto e acculturato?

<<Perché Erdogan si pone come un padre di famiglia – dice Mazzucotelli – è un leader paternalista che ha anche risollevato economicamente il Paese, ed è un autocrate avvezzo a trattare il popolo come un figlio, un bambino>>. Questo fa ancora breccia nel cuore di molti. L’ex primo ministro ha vinto al primo turno le elezioni del 10 agosto 2014, con il 52% dei consensi. L’ex ministro degli esteri Ahmet Davutoglu è oggi il nuovo premier e può mettere in atto la strategia pan-islamista che da sempre giace nell’agenda politica dell’Akp. Se non fosse per un più recente “califfo” auto-proclamato, quell’Al Baghdadi dell’Isil, che pare aver strappato lo scettro ad Erdogan e infestato i suoi sogni di grandeur… Ma il sultano turco non molla.